Note: [1] Francesco Verderami, Corriere della Sera 20/4; [2] Fabrizio Roncone, Corriere della Sera 21/4; [3] Jena, La Stampa 20/4; [4] Andrea Romano, La Stampa 22/4; [5] Massimo Giannini, la Repubblica 22/4: [6] Francesco Battistini, Corriere della Sera 2, 22 aprile 2006
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 24 APRILE 2006
«Nel centrosinistra ci sono due tre persone che se non trovassero una collocazione diverrebbero più pericolose dell’Iran» (Giulio Andreotti). [1] «Nemmeno la gloriosa diccì che stava al 40% si prendeva tutto. Mentre questi...» (Clemente Mastella). [2] «Allora compagni, procediamo così: al Quirinale mettiamo D’Alema, alla Camera Bertinotti, al Senato Lenin» (Jena). [3]
La presidenza della Camera, dunque, se l’è presa Fausto Bertinotti. Andrea Romano: «All’indomani di un risultato elettorale certo non entusiasmante, il centrosinistra ha giocato la prima partita della legislatura come se si trovasse ancora in pieno 1996. Con i Democratici di sinistra impegnati a reclamare adeguata visibilità istituzionale. Con Rifondazione comunista pronta a minacciare l’appoggio esterno. E con Romano Prodi già preso dal defatigante compito di inseguire Bertinotti sul suo terreno senza mai riuscire ad agguantarlo. Nel corso della campagna elettorale ci era stato annunciato uno scenario sensibilmente diverso. Per la disponibilità di Rifondazione a legarsi alla nuova esperienza di governo con ben altro impegno di responsabilità e per la prospettiva del superamento della logorata geografia Ds-Margherita in un nuovo soggetto unitario. Al primo tornante, è difficile sfuggire all’impressione del già visto e già sentito». [4]
La legislatura nasce con un atto che mortifica la componente riformista dell’alleanza premiando quella antagonista. Massimo Giannini: «Alla Camera l’Ulivo, anche se non ha esaltato le masse, esce comunque dalle urne con un non disprezzabile 31,3% di consensi. Rifondazione, anche se ha migliorato la sua performance, non ha comunque superato il 5,8%. I rapporti di forza hanno pur sempre un loro significato. Questa palese sproporzione tra l’esito elettorale e il ”dividendo’ istituzionale non è un buon viatico per l’alleanza. Soprattutto alla luce di un risultato che dimostra che questa Unione, nonostante la vittoria, non riesce a sfondare nell’elettorato del Nord produttivo e del ceto che un tempo si sarebbe detto ”borghese”. Il centrosinistra non ha molto da guadagnare ma ha invece tutto da perdere, se nel discorso pubblico comincia a passare il mito e il rito dei ”lunedì di Massa Martana”: i pranzi riservati tra Prodi e Bertinotti, in cui si stabilizza in modo unilaterale l’asse politico della coalizione». [5]
Negare a Bertinotti la presidenza della Camera sarebbe stato troppo pericoloso. Francesco Battistini: «Qualunque altra cosa Fausto chieda, non potranno negargliela: il vicepremier unico, le Finanze (andiamo a vedere quanto pagano di tasse gli italiani?), gli Esteri (stringerebbe la mano a Rumsfeld?), il Welfare (aboliamo la legge Biagi?)...». [6] Nino Bartoloni Meli: «La bomba atomica a Rifondazione l’hanno giocata sotto traccia, ma a quel che si è saputo l’hanno usata. Una bomba che si chiama ”appoggio esterno”. [...] Tra le subordinate impossibili, Bertinotti aveva anche messo il ”no” a se stesso vice premier con ruolo politico al governo e il ”no” all’offerta di tre ministeri, ”non è materia compensabile”». [7]
I Ds non potevano permettersi di mandare a carte quarantotto il loro ritorno al potere per una poltrona, sia pure prestigiosa. Renato Farina: «Però cominciano a domandarsi: che ritorno al potere è, se se lo pappano soltanto gli altri? Infatti: 1) Palazzo Chigi va a Prodi, niente da dire, ma non è diessino. 2) Il Senato: promesso a Franco Marini, Margherita. 3) Camera a Rifondazione. 4) Ci sarebbe il Quirinale. Ma Prodi non può garantire un tubo. La rielezione probabile di Ciampi sottrarrebbe una sostanziosa polpetta agli appetiti della maggioranza. Con il risultato di avere tra i piedi i diessini ingrugniti, senza polpa e senza osso». [8]
«Io non ho bisogno di cariche. Io sono Massimo D’Alema». Gianluca Roselli: «In queste parole pronunciate a ridosso del congresso di Pesaro nel novembre 2001 c’è tutto D’Alema. Il suo snobismo. Il suo senso di superiorità. La sua spocchia intellettuale. All’epoca si stava passando dalla segreteria Veltroni a quella Fassino e il destino dell’ex premier era incerto: alcuni lo davano alla presidenza del partito (come poi avvenne), ma niente era certo. E con quelle parole il leader Maximo lasciò intendere che lui non aveva bisogno di incarichi particolari. Era e restava, comunque, il numero uno. La realtà, però, necessita di un altro punto di osservazione: ogni volta che D’Alema si candida a qualsivoglia poltrona, si alza il fuoco di sbarramento. E il più delle volte trattasi di fuoco amico». [9]
Sistemato Bertinotti, Prodi vorrebbe che D’Alema facesse il ministro degli Esteri. [10] Vittorio Feltri: «D’Alema tuttavia storce il naso. Ministro di un governo zoppo?». [11] Fabio Martini: «Ci sono cose che si dicono soltanto agli amici e Massimo D’Alema, quando per lui le cose hanno cominciato a mettersi male, si è espresso con queste parole: ”Se alla fine resto fuori, io non mi preoccupo, semmai sono altri che dovranno preoccuparsi...”. Chi siano gli altri, il presidente della Quercia non l’ha detto, ma i due alti dirigenti ds che lo ascoltavano, hanno pensato entrambi a Romano Prodi e a Piero Fassino». [12] Una soluzione potrebbe essere piazzarlo al Quirinale (dove però, dato il meccanismo elettorale, è necessario il consenso dell’opposizione). Sergio Soave: « assai difficile - sulla base dell’esperienza - che l’esponente di punta di un grande partito riesca a scalare il Colle, perché c’è da sempre il timore che una tale concentrazione di potere avrebbe l’effetto di forzare il quadro politico. Se i ”cavalli di razza” della Dc, da Amintore Fanfani ad Aldo Moro, da Giulio Andreotti ad Arnaldo Forlani, non ci sono mai riusciti, una ragione deve ben esserci». [13]
La resa di D’Alema ha un prezzo. Maria Teresa Meli: «La cifra ha potuto quantificarla di persona Fassino a cui D’Alema ha fatto un discorso molto chiaro. Se non vado alla Camera, non vado neanche al governo, è stata la sua premessa. Seguita da quest’aggiunta: comunque bisognerà anche occuparsi del partito, prevedere un congresso in tempi brevi in vista della costituzione del nuovo soggetto politico, e occorrerà riflettere sull’opportunità di avere un segretario a tempo pieno e non con il doppio incarico... D’altra parte, già in tempi non sospetti D’Alema aveva spiegato che a suo giudizio chi sarebbe andato a ricoprire cariche istituzionali o di governo - lui incluso - avrebbe dovuto lasciare le poltrone occupate al partito. Un’ipotesi che non deve certo fare eccessivo piacere a Fassino, a cui non dispiacerebbe affatto mantenere la guida della Quercia e, nel contempo, andare al ministero degli Esteri». [14]
D’Alema dice che «farà un passo indietro» da qualsiasi incarico istituzionale e di governo. Mario Ajello: «Un passo indietro, per pugnalare meglio? Per pugnalare di nuovo? Sembra di stare nel film I soliti sospetti. Ma come: il Prof e il Migliore, finita la stagione dell’incomunicabilità, non erano da tempo diventati quasi una coppia perfetta? Anche nel Sospetto, film di Alfred Hitchcock, ci sono due sposini tanto affiatati. Ma piano piano, lei comincia a sospettare che il marito la voglia uccidere, per intascare l’assicurazione sulla sua vita». [15] Mario Giordano: «C’è chi diceva che avrebbero litigato alla prima Finanziaria. C’è chi diceva che avrebbero litigato al primo mese. I più feroci arrivavano a immaginare che avrebbero litigato nelle prime settimane. Invece i leader dell’Unione sono riusciti in un’impresa senza pari: hanno litigato alla prima poltrona. Non la seconda, non la terza. No, proprio la prima: che è un po’ come se i Mille di Garibaldi si fossero ammutinati ad Arenzano». [16]
«Se salta D’Alema, salta anche lo schema Camera-Senato: è una questione politica allora si ridiscute tutto». Sono parole di Vannino Chiti, prima che il leader diessino sventolasse bandiera bianca. [17] Marina Sereni: «Noi pensavamo a D’Alema alla Camera e Marini al Senato, ma se lo schema viene a cadere, si ridiscute tutto». [18] Il centrodestra, approfittando della situazione, ha candidato per la presidenza di Palazzo Madama Giulio Andreotti: «Se lo scontro per la presidenza del Senato si risolvesse tra due democristiani, nel segreto dell’urna potrebbe succedere di tutto, visto che in quel ramo del Parlamento l’Unione ha un vantaggio di pochissimi voti». [1]
Non è uno scherzo: a 87 anni, Giulio Andreotti potrebbe ritornare davvero al centro della scena politica. Ugo Magri: «Se Andreotti dovesse realmente accettare, la sua discesa in campo costituirebbe per l’Unione, e per Romano Prodi in particolare, una serissima insidia. Potenzialmente capace di sconvolgere i piani del Professore e, secondo i più pessimisti, di mettere addirittura in crisi il governo che vorrebbe formare». [19] Andreotti ha ricevuto notizia ufficiale della candidatura (da Letta e Casini): «Ne sono orgoglioso, e sarei anche lieto di farlo...». [20] Luca Telese: «L’asse fra Rifondazione e il Professore rende ”blindata” la candidatura di Bertinotti, i Ds gettano la spugna e si chiudono nella loro resa dei conti interna, al Senato il prestigio di Giulio Andreotti, magari per effetto di qualche franco tiratore mastelliano, azzoppa Marini (tutti ricordano cosa accadde ad un altro designato centrista come Arnaldo Forlani, per il Quirinale) e la Margherita viene spazzata via dai vertici istituzionali, perché i tre papabili più accreditati del centrosinistra (l’uscente Ciampi, Giuliano Amato e Giorgio Napolitano) sono tutti e tre di estrazione azionista o socialdemocratica. Alla fine dei proclami, se Marini resta al palo, le vecchie rivalità sono destinate a risorgere, e il partito democratico resterà una bella chiacchiera di fine stagione». [21] Marco Damilano: «C’è chi giura che, visto il risicato margine di vantaggio, con il rischio del voto segreto, l’ex sindacalista si sarebbe già prenotato per una poltronissima di governo: il Viminale. Uno scambio con la ex maggioranza: a Palazzo Madama potrebbe finire il ministro dell’Interno uscente Giuseppe Pisanu». [22]
Al Senato la Cdl potrebbe votare per Clemente Mastella presidente. Martini: «Naturalmente se Mastella fosse votato dal centrodestra avrebbe buone probabilità di essere eletto presidente del Senato, potendo contare sulla carta su 156 voti della Cdl più i 3 dell’Udeur, ma contestualmente il leader di Ceppaloni dovrebbe cambiare schieramento». [23] Mastella: «Io, il presidente del Senato, saprei farlo meglio, ma davvero molto meglio di Marini. E non solo. Sono sicuro che prenderei anche molti più voti di lui». [2] Sergio Romano: «Le presidenze di Camera e Senato sono divenute un’altra anomalia italiana. Sono certamente importanti, ma anche e soprattutto per ragioni che hanno poco a che vedere con la loro principale funzione, che è quella di garantire l’ordinato svolgimento dei lavori parlamentari. Sono centri di un potere parallelo. Sono utili sale d’aspetto. Sono una piattaforma che permette al titolare di valorizzare se stesso, dare interviste, fare conferenze, presiedere convegni, elaborare progetti che non gli competono (penso alla politica ”religiosa” di Marcello Pera), coltivare le proprie ambizioni anche a scapito della maggioranza di cui sono espressione». [24]
Il pilastro su cui si regge il precario equilibrio della nuova legislatura è la presidenza della Repubblica. Damilano: «Restano per ora in silenzio i candidati favoriti. Giuliano Amato, che ha appena dato alle stampe un libro di memorie edito dalla berlusconiana Mondadori e che può contare su un agguerrito partito di estimatori nel centrodestra, a cominciare da Gianfranco Fini. E l’ex commissario europeo Mario Monti. Candidato super-trasversale per il Quirinale. In corsa anche per la guida del governissimo della grande coalizione: nominato a Bruxelles dai governi di centrodestra e di centrosinistra, figura bipartisan in grado di raccogliere consensi ovunque. A lui pensa Berlusconi per un governo tecnico, nel caso che riesca a impedire la nascita di un governo di centrosinistra guidato da Prodi. Ma perché il Professore dovrebbe abdicare senza combattere? Senza contare che in caso di empasse Prodi può aspirare a qualsiasi incarico. Compresa la presidenza della Repubblica». [22]
Tra gli scenari possibili ne va citato almeno un altro. Feltri (per il quale l’idea «fa venire la nausea»): «Prima mossa. Salutare degnamente Ciampi e ringraziarlo per l’opera svolta eccetera. Sostituirlo con Berlusconi. Sissignori. Silvius. Con quali voti? Quelli del centrodestra al completo più quelli della Margherita. Seconda mossa. La Casa delle libertà (decapitata del leader), in cambio del favore al Cavaliere, non avrebbe difficoltà a garantire a Prodi e alla sua maggioranza risicata una vita relativamente tranquilla. Fate pure, se vi manca un suffragio ve lo diamo di nascosto (per non irritare gli elettori). Terza mossa. Nel frattempo - profittando del Berlusca beato fra i corazzieri - quel grande furbacchione (stavo scrivendo mignottone) di Casini avrebbe l’opportunità di negoziare con la Margherita e con la quota cattolica di Forza Italia, che è preponderante. Negoziare cosa? L’Udc ha un sei quasi sette per cento. La Margherita ha un dieci e rotti. I cattoforzitaliani disponibili a compattarsi coi cugini udicini e margheritini costituiscono circa il dodici per cento. Fate la somma, amici. Sette più dieci più dodici fanno ventinove. Ecco a voi il primo partito italiano. Un partito vero, strutturato, con tanto di base e di comune denominatore: la cultura cristiana, l’educazione cattolica». [11]
Udc, Forza Italia e Margherita sono pezzi dello stesso ceppo. Feltri: «Si uniscano, diano corpo a un partito unico. Col risultato di appoggiare Prodi? Certamente, per un periodo. Il tempo utile ad approvare una legge elettorale meno stomachevole dell’attuale, approvare la Finanziaria e ammennicoli vari. Poi si vedrà. Quarta mossa. I comunisti italiani e quelli di Rifondazione si ribellano? Pazienza. Abbandonino la maggioranza. Saranno rimpiazzati dalla neonata formazione cristiana cui abbiamo accennato. Che col suo quasi trenta per cento colmerebbe abbondantemente il vuoto rosso con notevole soddisfazione di quattro quinti dei connazionali. Quinta mossa. I parlamentari sono terrorizzati da elezioni anticipate per motivi pratici, egoistici. Per avere diritto alla pensione devono aver trascorso nel Palazzo almeno mezza legislatura. Un traguardo a cui tengono. Anche perché una campagna elettorale costa l’investimento merita un minimo di utile, cioè un assegno mensile. Quindi rassegniamoci. Prima del 2009 sarà difficile indire consultazioni anticipate». [11]