La Repubblica 25/03/2006, pag.55 Simonetta Fiori, 25 marzo 2006
Sangue sulla marcia. La Repubblica 25 marzo 2006. Tra i simboli dell´immaginario fascista resiste tenacemente la marcia su Roma, ancora oggi celebrata ogni fine ottobre da agguerriti gruppi di nostalgici (gli stessi che ora fiancheggiano Alessandra Mussolini nello schieramento elettorale di centro-destra)
Sangue sulla marcia. La Repubblica 25 marzo 2006. Tra i simboli dell´immaginario fascista resiste tenacemente la marcia su Roma, ancora oggi celebrata ogni fine ottobre da agguerriti gruppi di nostalgici (gli stessi che ora fiancheggiano Alessandra Mussolini nello schieramento elettorale di centro-destra). Un evento spesso raffigurato con tinte avventurose e rocambolesche, non prive di risvolti grotteschi con quei «diavoli neri» infangati dopo due giorni di attesa sotto una pioggia battente. Ora, anche grazie a un nuovo saggio storico di Giulia Albanese - tra qualche giorno in libreria da Laterza con il titolo La marcia su Roma (pagg. 295, euro 18) - l´ingresso nella capitale degli squadristi viene sottratto alla cifra romanzesca dell´improvvisazione e restituito alla sua dimensione violenta e organizzata, nella cornice d´una capillare occupazione di molte altre città italiane. Più che una marcia su Roma, si trattò infatti di un´aggressione articolata e ben progettata in ogni angolo del paese, con la conquista di prefetture, uffici postali e stazioni in piccoli e grandi centri. «Le azioni delle camicie nere e le violenze perpetrate in quei giorni sono state per lo più sottovalutate», denuncia l´autrice, estendendo la critica alla stessa storiografia antifascista. Nel secondo dopoguerra, sostiene Albanese, la storia della marcia su Roma sarebbe stata soprattutto la storia delle trattative parlamentari che indussero il re ad affidare a Mussolini l´incarico di formare il nuovo governo. «A partire da questa prospettiva, molti storici hanno evidenziato soprattutto la continuità istituzionale, piuttosto che le fratture», considerando l´ingresso nella capitale un "bluff" e non un grave vulnus allo Stato liberale. «Anche i contemporanei, perfino coloro che ne avevano colto la portata eversiva, preferirono ritenere che non fosse successo niente di nuovo». E, nonostante l´enorme mole di saggi sul fascismo, solo con Adrian Lyttleton, al principio degli anni Ottanta, sarebbe cambiato l´approccio alla marcia romana, finalmente innalzata ad evento d´avvio della dittatura fascista. Entro questo solco s´è sviluppato lo studio di Giulia Albanese, affidato a fonti archivistiche poco note (le relazioni dei prefetti) o del tutto inedite (come le memorie dell´esercito). Con un impianto interpretativo che molto deve agli studi del suo maestro Mario Isnenghi. Se certamente non ignoto è lo spadroneggiamento delle camicie nere in ampie zone del paese - indagato tra gli altri più recentemente da Gianpasquale Santomassimo e Salvatore Lupo - la mappatura dettagliata proposta dal volume laterziano illustra un progetto sovversivo assai complesso e di respiro nazionale, che è certamente riduttivo classificare sotto il luogo simbolico di «marcia su Roma». Impressionanti sono le dimensioni della violenza in quel mese di ottobre del 1922, che secondo l´autrice sarebbe stata evidenziata soltanto dalla storiografia d´ispirazione fascista, ma in chiave celebrativa se non eroicizzante perché in funzione antisocialista. Violenze diffuse non solo nella città di Roma, dove nei giorni della marcia persero la vita ventidue persone, e assai fosco fu il quadro di devastazione con le aggressioni nei quartieri popolari, l´olio di ricino agli avversari, le case dei deputati antifascisti distrutte, bastonature, incendi e distruzioni di sedi di partito, di giornali, di case del popolo. Ma soprattutto violenze perpetrate in molte città italiane, da Bari a Torino, da Catania a Venezia, e ancora Padova e Brescia, Caserta e Civitavecchia: ovunque l´occupazione armata dei centri del potere cittadino e la distruzione dei luoghi appartenenti alle forze politiche avversarie, come le case del popolo, i circoli cooperativi, le tipografie dei giornali non asserviti. A Milano il principale obiettivo, oltre l´Avanti!, fu il Corriere della Sera, costretto per un giorno a cessare le pubblicazioni: infausto presagio del bavaglio presto imposto ai giornali. Ma fu Bologna il teatro più insanguinato della violenza nera, con una decina di morti nei giorni della marcia. Interessante (e forse meno noto) è il caso della città emiliana, dove i militari guidati dal generale Ugo Sani si distinsero da gran parte delle forze armate per la robusta resistenza all´aggressione squadrista. Significativa la relazione finale del coraggioso comandante, il quale - in un contesto di generale resa alle camicie nere, premiate con l´incarico governativo a Mussolini - fu costretto in qualche modo a giustificare i suoi soldati scrivendo che non c´era stata «nessuna ostilità» nei confronti dei fascisti. L´occupazione di larga parte del paese, nei giorni immediatamente antemarcia, era infatti avvenuta con la connivenza dell´esercito e dei prefetti. Da Ancona a Ferrara, da Genova ad Alessandria, le camicie nere erano riuscite ad occupare gli uffici delle questure, delle poste e dei telegrafi, con l´acquiescenza o l´aperto favoreggiamento delle autorità statali, talvolta legate da un rapporto confidenziale con i dirigenti fascisti. Espressivi i telegrammi riportati nel volume, che documentano un sentimento assai fragile di fedeltà - da parte dei rappresentanti periferici - verso un ministero dell´Interno percepito come debole e ambiguo. Pisa fu la prima delle città occupate, la mattina del 27 ottobre, con le linee telegrafiche e telefoniche interrotte, e le auto private requisite dagli insorti. Poi Siena, dove furono saccheggiate le caserme. A Cremona, patria di Farinacci, le cose non andarono nel verso giusto: i militari reagirono uccidendo quattro fascisti, mentre rimasero feriti sette soldati (gran sconcerto tra le camicie nere che, confidando in colpi a salve, gridarono a Farinacci: «Onorevole, tirano a palla e diritto!»). A Foggia arrivarono la sera in millecinquecento, distribuiti tra caserma, prefettura, posta e telefono. Fu occupata anche la centrale elettrica e sulla città scese il buio. Nel cuore della notte, sempre quel 27 ottobre, fu annessa anche Perugia, "quartier generale della rivoluzione fascista". Lì s´erano dati appuntamento i quadriumviri Michele Bianchi, diciannovista e segretario del Pnf, Italo Balbo, comandante dello squadrismo padano, Cesare Maria De Vecchi, vicino agli ambienti monarchici e militari, ed Emilio De Bono, ufficiale cooptato dal partito. A mezzanotte il prefetto Sante Franzé telegrafa a Roma che - dopo «un rifiuto fermo e dignitoso» - ha dovuto cedere i poteri all´autorità fascista. I documenti in realtà ridimensionano sia «fermezza che dignità», ma tant´è: Perugia passa nelle mani degli scherani neri. Stesso destino per Firenze, Treviso, Rovigo, Piacenza, Verona, Bologna, Venezia, Portomaurizio, Pavia, Udine, Novara, Trieste, Gorizia e Brescia. Un bollettino della disfatta accoglie il governo all´alba del 28 ottobre: il Consiglio dei ministri proclama lo stato d´assedio. Dispositivo tanto grave quanto disatteso. La resa di prefetti e militari appare unanime, spesso con l´argomento che scarseggiano i mezzi. A mezzogiorno da Roma arriva un nuovo telegramma: lo stato d´assedio è revocato. Esplicito il segnale: i fascisti hanno vinto. Il giorno seguente, l´incarico a Mussolini, in un´escalation di ferocia che il futuro duce faticherà a placare. La mattina del 30 ottobre l´ingresso degli squadristi a Roma, su autorizzazione delle massime cariche dello Stato. Ma la vittoria non era concepibile - così pensavano in molti - senza la soppressione degli avversari. O dei loro simboli. Quel che rimarca questo nuovo saggio è la violenza esercitata nella "marcia dopo la marcia", l´opera di devastazione nascosta dietro la bandiera della normalizzazione sventolata dal premier: furono più d´un centinaio gli assassinii nell´anno successivo all´occupazione della capitale. Emblematica la sopraffazione praticata nel dicembre del 1922 durante il voto amministrativo a Milano, città tradizionalmente guidata dai socialisti riformisti. Il grave clima di minacce - tra bastoni e pistole all´ingresso dei seggi - colpì un osservatore distaccato quale il console inglese inviato in quella città. Così come sistematica apparve la campagna di aggressioni contro quei comuni amministrati da forze politiche estranee alle alleanze del Pnf: anche nei piccoli centri la geografia politica uscì ridisegnata sotto i colpi dei randelli. Un fenomeno che, secondo Albanese, è stato sottovalutato dalla storiografia. D´altra parte, nei giorni e nei mesi successivi alla marcia, Mussolini poté inveire contro una delle principali istituzioni liberali, il Parlamento, senza che la classe politica liberale opponesse la minima resistenza. Solitario fu l´urlo di Giustino Fortunato - «quante bassezze, quante viltà, quante sconcezze!» - perfino in quel tempio di civiltà che era casa Croce a Napoli. Alla fine del volume sembra incontestabile la tesi dichiarata sin da principio, e cioè che la dittatura nera ebbe inizio in quei giorni di pioggia battente sul finire di ottobre («piove che è un piacere», scrisse entusiasta Dino Perrone Compagni, comandante della colonna Lamarmora a Santa Marinella). Preludio d´un diluvio che sarebbe durato oltre vent´anni. Simonetta Fiori