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 2006  marzo 28 Martedì calendario

Beniamino Placido parla di Oblomov

Oblomov lazzarone di campagna. La Repubblica 28 marzo 2006. Com´è potuto accadere che il primo libro importante della nostra età adulta (eravamo già all´università, allora) sia l´Oblomov di Goncarov? Preciso subito che l´Oblomov di Ivan Aleksandrovic Goncarov è quel romanzo russo scritto negli ultimi anni ´50 dell´Ottocento (1858-59) nel quale si descrive a lungo, senza risparmio di dettagli, l´infinita, sempiterna pigrizia che affligge il protagonista: un signore russo che vive di rendita e non ha voglia di far niente; che malgrado le naturali difficoltà, riesce a non far niente per gran parte della sua vita. Credo che avvenne anche e soprattutto perché eravamo un po´ tutti curiosi di sapere se nell´URSS aveva continuato a regnare quell´atteggiamento. Ma come facevano, se si divertivano a varare almeno una volta all´anno qualche «piano quinquennale», se esaltavano la fatica? Come facevano, se nobilitavano e onoravano (almeno formalmente) i «lavoratori»? Fu così che ormai liberi dagli esami e dovendo affrontare la sola tesi di laurea, cominciammo a frequentare le lezioni di lingua russa: si diceva che il russo sarebbe diventato, stava diventando, una lingua indispensabile. Il lettore di lingua russa all´Università di Roma era un russo bianco (così si diceva allora) Leonida Gancicov, che era capitato in Italia subito dopo la Rivoluzione (russa, naturalmente) e che insegnava Storia e Filosofia in un nostro liceo. Ma nel pomeriggio ci seguiva nella sua classe (piccola, saremmo stati dodici, tra ragazzi e ragazze) di lingua russa. Una lingua, tentava di convincerci, che non avremmo mai imparato: tant´è che nemmeno «quello là» la conosceva alla perfezione. Anche «quello là», vale a dire il cattedratico di Letteratura Russa Ettore Lo Gatto, temutissimo e ammiratissimo, non è che riuscisse proprio sempre a sgrovigliare il rapporto tra forme «perfettive» e forme «imperfettive» dei verbi. Comunque, se proprio ci tenevamo. E noi ci tenevamo, altroché. Ci tenevamo a dominare il rapporto delicatissimo tra forme «perfettive» e forme «imperfettive» del verbo russo. Così come ci tenevamo a penetrare il cosiddetto segreto dell´anima slava, vale a dire quella pigrizia incorreggibile che era descritta - ci avevano detto - nell´Oblomov. Veramente Leonida Gancicov - che era persona di animo signorile e di delicatissimo tratto - faceva di tutto per persuaderci del contrario. Non è scomparso - né scomparirà mai in chi lo ha frequentato - il ricordo di quel pomeriggio che eravamo ad aspettarlo sulle scale della Facoltà di Lettere di Roma. Quando un gruppo di colleghi, rimasti a pigrottare sulla base della scalinata - cominciò a indicarlo: «E´ lui. E´ proprio lui. Ma sì, è proprio lui. E´ russo». Leonida Gangicov si girò, evidentemente infastidito, aprì le braccia e fece: «Sì, sono russo di nascita, ma come potere vedere ho due piedi, due mani, due braccia, proprio come ognuno di voi». E arrivati in classe continuò profferendo quella minaccia che poi sarebbe diventata una costante delle sue lezioni: «Lo so che voi pensate sempre all´anima slava e ve la rappresentate inguaribilmente pigra com´è in Oblomov. Ma se continuate così io mi soffermerò sull´anima del lazzarone napoletano - altrettanto pigro e sfaccendato - fingendo di sapere che anche voi la rappresentate». Da parte nostra, noi lo rassicuravamo (o tentavamo di rassicurarlo) dicendogli che ben conoscevamo le controdeduzioni degli studiosi della Letteratura Russa; la conoscevamo, sì, quella battuta di Lenin che suonava: «Bisogna uccidere l´Oblomov che è in ognuno di noi» e - fosse per merito di Lenin o no - sapevamo che andando in Russia non avremmo incontrato nessun Oblomov. Il professor Gancirov a quel punto si inteneriva. «Quando tutti potremo andare o tornare in Russia sarete ospiti a casa mia, a Pietrogrado», e qui quasi si commuoveva. Quindi, visto che interessava tanto, procedeva nella lettura - lentissima, attentissima - dell´Oblomov, che era e permaneva - perbacco - un capolavoro della Letteratura Russa dell´Ottocento. Lentissimamente, faticosamente noi lo seguivamo per quelle poche righe che in una lezione riuscivamo a leggere. Ma il romanzo già lo conoscevamo. E´ la storia di un signore di campagna, proprietario di terre e di «anime», cioè di servi, che vive tranquillo. O meglio che vivrebbe tranquillissimo se i domestici (e le domestiche) non lo incalzassero ricordandogli che deve mettersi le calze e le scarpe, cambiarsi di biancheria, lavarsi, pettinarsi. Il nostro Oblomov - come è stato detto - è un eroe della poltrona. E´ il protagonista invincibile di quella malattia che da lui prende il nome di «oblomovismo». Quando rispettosamente, timidamente gli rammentano le cose da fare: occuparsi della terra, dei contadini, dei raccolti, egli risponde stizzito invariabilmente: ma perché proprio oggi? Che fretta c´è? Vedrò, farò domani. Un giorno si innamora di Olga: come può accadere in ogni romanzo dell´Ottocento, ma la sua pigrizia gli impedisce di condurre il fidanzamento fino in fondo. E Olga finirà come moglie di Stolz, personaggio di origine tedesca e tedesco di temperamento (attivo, efficiente, dinamico). Che è l´esatto contrario di Oblomov e che per questo motivo riesce a noi lettori indifferente o antipatico. C´è in questo romanzo un capitolo a parte - ancora più lento, trasognato e sognante degli altri - che si intitola «Il sogno di Oblomov». In realtà vi si descrive l´infanzia di Oblomov. L´infanzia che ognuno sogna o si illude di aver avuto. Può accadere che questo capitolo venga stampato a parte, com´è accaduto nelle edizioni tedesche della Reclam con traduzione tedesca a fronte e con tante note sul carattere «oblomovistico» della narrazione. In queste note sono rari i rinvii a quell´Arcadia, a quell´Età dell´Oro, a quel vaneggiamento di una vita senza scosse e senza emozioni, senza fatiche e senza intoppi, che caratterizza tutta l´esistenza del nostro eroe. Siamo alle solite, siamo al regno dell´Età dell´Oro. E siamo alle solite perché anche in queste circostanze scopriamo con sorpresa che Oblomov nutre un sogno di superiorità. La sorpresa scatta quando il vecchio servitore Zachar si rende responsabile di una impalpabile mancanza nei confronti del padrone e lo paragona nientemeno che agli altri: «Ma hai pensato a che cosa è un altro?», replica Oblomov al servo esterrefatto. «Un altro come tu lo intendi è un maledetto pezzente, un individuo grossolano ed incolto che vive in una soffitta nel sudiciume e nella miseria; ma può dormire benissimo anche in cortile su un mucchio di stracci. Che gli può succedere? Niente. Si abboffa di patate e di aringhe». «Che cosa è un altro», prosegue Oblomov, accaldandosi nella sua perorazione. «Un altro è un individuo che si pulisce le scarpe da sé, che si veste da sé e può anche darsi che abbia l´aspetto di un signore; ma è una finzione, e lui non sa nemmeno che cosa sia un servitore; non ha nessuno da mandare per commissioni. E quando gli serve qualcosa deve correre lui; e si attizza da solo la legna della stufa, e a volte gli tocca anche di spolverare». E dunque, anche Oblomov - che noi ricordiamo e teniamo a mente come esempio di passiva, indolente, accidiosa pigrizia - è affetto da «narcisismo»; pensa solo a se stesso; vuol essere o sentirsi superiore agli altri, a tutti gli altri. Anche Oblomov che ormai quasi non ha più rendita, perché ha lasciato che andassero in malora tutti i suoi possedimenti, che è quasi mantenuto dalla padrona di casa dai bei gomiti nudi, anche Oblomov non tollera che si dica, si implichi, che gli «altri» sono come lui. Anche Oblomov. Rimane da chiederci: negli anni a venire sarà riuscito il Comunismo a distruggere l´Oblomov che è in ognuno di noi, come riconosceva Vladimir Il´ic Lenin? Probabilmente no, se è vero, come è vero, che ancora nel 1956, e precisamente il 25 febbraio 1956, a Mosca, Nikita Kruscev, nel famoso discorso critico sullo stalinismo e i suoi errori disse: «Noi dobbiamo abolire il culto dell´individuo». Dunque quell´Oblomov che, benché pigro, qualche difetto di individualismo, di narcisismo, ce l´aveva, non era ancora morto: nel 1956. Beniamino Placido