Sergio Romano Panorama, 04/01/2002, 4 gennaio 2002
L’euro potrebbe diventare la nostra dichiarazione d’indipendenza, Panorama, 2002 Delle grandi monete storiche che usciranno di scena fra qualche settimana, la lira italiana è la più giovane
L’euro potrebbe diventare la nostra dichiarazione d’indipendenza, Panorama, 2002 Delle grandi monete storiche che usciranno di scena fra qualche settimana, la lira italiana è la più giovane. è nata il 24 agosto 1862 e andrà a riposo il 28 febbraio 2002. Ma è la sola che possa vantarsi, per il modo in cui fu concepita, di assomigliare all’euro. Le cose andarono così. Quando fu costituito il Regno, nel maggio del 1861, circolavano in Italia tante monete quanti erano gli stati preunitari. Vi erano i baiocchi pontifici, i tarì borbonici, le lire del Regno di Sardegna, del Ducato di Parma, del Lombardo-Veneto, del Granducato di Toscana; e ciascuna di esse aveva, rispetto all’oro, un valore diverso. Occorreva una moneta comune con cui fissare i prezzi, calcolare le transazioni commerciali, redigere i bilanci. E occorreva al tempo stesso un segno tangibile dell’unità, un solido pezzo di metallo o d’argento su cui imprimere l’immagine del sovrano e lo stemma della dinastia. Come nel caso dell’euro, quindi, le motivazioni erano al tempo stesso pratiche e politiche. La moneta non è soltanto un mezzo di pagamento: è la prova dell’esistenza di uno stato sovrano. Ma occorreva fare presto. Nel luglio del 1861 fu scelta l’impronta; nel novembre fu deciso che le zecche sarebbero state tre (Torino, Milano, Napoli); nel marzo [1862] dell’anno seguente fu stabilito il valore aureo della lira; in maggio fu calcolato il tasso di cambio fra la nuova moneta nazionale e quelle usate negli stati scomparsi. E il 24 agosto, infine, una legge decretò ufficialmente la nascita del sistema monetario italiano. Il ”concepimento” della lira quindi fu molto più rapido di quello dell’euro. Molto più lunga invece fu la fase durante la quale le monete vecchie e le monete nuove continuarono a risuonare insieme nelle tasche degli italiani. Alla fine del decennio circolavano ancora, soprattutto al Sud, le lire, i soldi e i ducati degli stati preunitari. Ma nel frattempo era nata in Europa una specie di euro. Era stata costituita una Unione monetaria latina a cui avevano aderito, per iniziativa della Francia, l’Italia, il Belgio, la Svizzera e la Grecia (...) Ma per molti anni le monete dei cinque stati si scambiarono alla pari e circolarono liberamente negli stati dell’Unione. Di quel periodo rimane traccia in molti romanzi italiani dell’Ottocento dove l’autore usa spesso, per indicare il prezzo di una cosa, la parola ”franco”. La storia dell’euro è molto più lunga e laboriosa. Comincia all’inizio degli anni Settanta ed è, per molti aspetti, il risultato della guerra che gli americani stanno combattendo in Vietnam. Sino a quel momento la ”moneta unica” della Comunità europea, quella con cui i suoi membri compravano materie prime e prendevano impegni di più lungo respiro, era stata di fatto il dollaro. Finché la valuta degli Stati Uniti era stata fermamente ancorata all’oro, le cose erano andate bene. Ma quando gli oneri finanziari della guerra in Vietnam costringono Richard Nixon, il 15 agosto 1971, a sospendere la convertibilità del dollaro, gli europei constatano che la loro economia e i loro scambi internazionali dipendono dal valore di una moneta soggetta, nel bene e nel male, alle ripercussioni della politica degli Stati Uniti. Già da qualche mese comunque un comitato presieduto da Pierre Werner, capo del governo lussemburghese, aveva preparato un rapporto sulla creazione di una Unione economica e monetaria. Poco meno di due anni dopo, nel marzo del 1972, i paesi della Comunità fanno un primo passo e mettono in funzione quello che verrà definito un ”serpente” monetario, vale a dire un sistema in cui l’oscillazione di ogni moneta rispetto alle altre non può superare il 2,25 per cento. Ma il nuovo sistema non ha fatto i conti con le turbolenze della situazione internazionale. Lo shock petrolifero provocato dalla guerra del Kippur, nel 1973, provoca nei paesi del ”serpente” tassi d’inflazione diversi e ne mette a dura prova le regole. Passano cinque anni e nel dicembre del 1978 sei paesi della Comunità, Germania, Francia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Lussemburgo, decidono di formalizzare la loro cooperazione e di creare un vero e proprio Sistema monetario europeo. L’Italia attraversa un brutto momento e chiede una ”pausa di riflessione”. Dopo l’assassinio di Aldo Moro all’inizio dell’anno vive ancora in stato di emergenza e ha, per di più, un tasso d’inflazione che ha toccato in alcuni momenti il 20 per cento. Può un paese in tali circostanze agganciare la propria moneta a quella di economie forti e ben governate? Prevale tuttavia la voglia di Europa e il 14 dicembre, dopo un dibattito parlamentare, il governo Andreotti comunica a Bruxelles che l’Italia «ci sta». I veri progressi verso la moneta unica, dopo numerosi ondeggiamenti e tentennamenti, cominciano tuttavia quando Jacques Delors, presidente della Commissione, presenta al Consiglio europeo di Madrid, nel giugno del 1989, un rapporto sulla creazione dell’Unione economico-monetaria a cui ha lavorato per molti mesi, tra gli altri, Tommaso Padoa Schioppa. Il rapporto coincide con l’ultima fase di gestazione del mercato unico europeo, vale a dire con la nascita di uno spazio integrato in cui i paesi membri s’impegnano ad abolire qualsiasi ostacolo alla libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone. Mercato unico e moneta unica diventano da questo momento gli obiettivi complementari di uno stesso progetto. Comincia in questo momento la fase decisiva. Per creare una moneta unica, tuttavia, occorre che i soci si assomiglino, vale a dire che i loro tassi d’inflazione, tassi d’interesse, debito pubblico e disavanzo siano convergenti. Nascono così i parametri di Maastricht, vale a dire le condizioni che sono rimaste appese sulla testa dell’Italia come una spada di Damocle per buona parte degli anni Novanta. Quando gli uomini di governo italiano (Andreotti, Carli e De Michelis) firmano il trattato di Maastricht nel febbraio del 1992, il debito pubblico è il doppio di quello prescritto dal trattato, il disavanzo è quattro volte più grande, il tasso d’inflazione e il tasso d’interesse sono ”fuori norma”. Non basta. La firma del trattato coincide con il primo scandalo di Tangentopoli (l’arresto di Mario Chiesa) e con l’inizio di una delle fasi più turbolente della storia italiana. E pochi mesi dopo, in settembre, la lira sarà travolta da una tempesta monetaria e perderà nelle settimane seguenti il 25 per cento del suo valore. Ma la manovra finanziaria del governo Amato (90 mila miliardi di lire) è la prima tappa del risanamento. Ancora una volta la voglia di Europa prevale su qualsiasi altra considerazione. Può anche darsi, come sostengono le malelingue, che il risanamento sia stato raggiunto con qualche correzione cosmetica ai conti dello Stato, ma credo che gli storici parleranno della ”marcia all’euro”, nella seconda metà degli anni Novanta, come di un bel capitolo di storia italiana. Oggi, alla vigilia della morte delle monete nazionali, il coro degli scettici e dei diffidenti sembra più rumoroso di quello degli ottimisti. L’elenco delle obiezioni è lungo. L’euro ha già perduto valore rispetto al dollaro. La Banca centrale europea non ha di fronte a sé un governo europeo con cui dialogare. L’avvento della moneta unica coincide con una fase di preoccupante ristagno economico. E la folla dei candidati alle porte dell’Unione rischia di squilibrare il sistema. Ma gli italiani, nel momento in cui spenderanno il loro primo euro, dovrebbero tener conto di almeno tre fattori. Dovrebbero ricordare, in primo luogo, che l’ammissione al club della moneta unica, nel 1998, ha salvato la lira dalla tempesta monetaria che ha sconvolto una parte del mondo nell’autunno di quell’anno. Se non fosse stata solidamente agganciata all’euro, la lira, in quei mesi, sarebbe finita nel mirino della speculazione internazionale. Dovrebbero ricordare in secondo luogo che i parametri di convergenza e il patto di stabilità hanno ridotto drasticamente il tasso d’inflazione dei paesi europei. Se i prezzi sono relativamente stabili e i redditi fissi non vengono erosi dal deprezzamento del denaro, come è accaduto in Italia per buona parte degli anni Settanta e Ottanta, lo dobbiamo all’euro. E dovrebbero ricordare in terzo luogo che l’euro permette finalmente l’unica rivoluzione che gli europei non abbiano mai fatto: quella dei consumatori. Quando tutti i prezzi saranno espressi in euro, ciascuno di noi potrà confrontare quelli di uno stesso bene nei diversi paesi dell’Unione. Potrà farlo viaggiando o, più semplicemente, navigando da un sito all’altro attraverso Internet. Cambiare moneta non è facile, ma non appena si accorgeranno che la nuova moneta è un’arma contro i prezzi protetti, contro le rendite di posizione e contro l’arroganza dei monopoli, i consumatori di ogni paese membro potranno usare l’euro, se lo vogliono, come una ”dichiarazione d’indipendenza”. E se l’euro mette radici nel cuore e nelle tasche della gente il resto, vale a dire lo stato federale europeo, verrà prima o dopo da sé. Sergio Romano