Emanuela Audisio la Repubblica, 30/12/2001, 30 dicembre 2001
Per Vidoz la boxe ha un odore solo negli States, la Repubblica, domenica 30 dicembre 2001 Milano. è l’unico sportivo italiano ”fai da te” che se n’è andato fuori, all’estero
Per Vidoz la boxe ha un odore solo negli States, la Repubblica, domenica 30 dicembre 2001 Milano. è l’unico sportivo italiano ”fai da te” che se n’è andato fuori, all’estero. A vivere e a fare a pugni. Da poveraccio, senza tante comodità. On the ring, più che on the road. Anche se sta cercando una sua strada. Paolo Vidoz, peso massimo, bronzo ai Giochi di Sydney, il 2001 l’ha passato in America. «In un Motorlogde a Belleville, vicino a Newark, a 10 chilometri dalla palestra dove mi allenavo». Lingua? «Non sapevo nemmeno una parola d’inglese, se fai il pugile un modo per farti capire lo trovi». Com’è la provincia americana vista da uno che è cresciuto in quella friulana? «Assurda, piena di confini che non stanno scritti da nessuna parte, ma che esistono: il quartiere dei bianchi, quello dei neri, quello dei portoricani, quello degli italiani. Cammini sulla stessa strada e a poco a poco cambiano i dialetti, le facce, l’odore del cibo, le insegne degli alimentari. La palestra è in una zona nera, quando ci passo mi sputano sulle scarpe e mi guardano con odio. Assurda anche la roba che trovi dai verdurai, lo dico da ragazzo di campagna. I pomodori che mi dà mia mamma marciscono dopo due giorni, quelli che trovi in America resistono anche due mesi. Ma non hanno sapore, non mi ci abituerò mai». Si cucina? «Sì, sono stato costretto, nelle mense c’erano troppe schifezze. Da pochissimo a Nutley ho affittato un buco, va bè chiamiamolo sottotetto, per 400 dollari al mese, è una stanza unica, senza tv, ci ho messo dentro un po’ di rifiuti. Una panchina, un comodino e un letto, raccolti davanti ai bidoni della spazzatura». Dov’era l’undici settembre? «A Nutley, appunto, periferia di Newark. Quel giorno dovevo andare a fare i guanti a Brooklyn quando ad ogni incrocio non facevo che sentire le sirene delle autoambulanze e dei vigili del fuoco. Sono passato da un mio amico, Pasquale, uno studente che mi aiuta per le pratiche quotidiane e lì alla sua tv ho visto. Mi è sembrato di essere tornato indietro al terremoto del Friuli nel ’76, quando ero un bambino di otto anni, lo stesso dolore, la stessa disperazione. E ai racconti di guerra di mio nonno. Sono subito corso a donare il sangue. La gente si sorprende: come proprio tu, un pugile, resti sconvolto dalla violenza? Come se tutti noi per professione fossimo assassini incalliti. Io sono abituato a chi mi colpisce, ma in faccia, non alle spalle. Io lo so quanto e come può far male un colpo, ma sul quadrato, cosa c’enta colpire la gente che non conosci, che non c’entra niente, che muore senza sapere perché? Lo so che noi sportivi veniamo considerati egoisti, più attenti ai nostri programmi, ai nostri appuntamenti, che non ai fatti che attraversano il mondo. Ma stavolta non si poteva fare finta di niente, andavi ad allenarti e non trovavi gli sparring. è nella quotidianità che sentivi che tutto era cambiato, tutte le facce che incontravi erano da cimitero. Ho combattuto a Las Vegas il 20 settembre, non sembrava più la stessa città, vuoti i casinò, dieci persone ai tavoli, altro che festa, si respirava il lutto». Eppure l’America delle palestre sembrava immutabile, nello squallore e nella disperazione. «è vero, i miei incontri più duri li ho fatti lì. A Brooklyn quando vado a fare i guanti c’è un’atmosfera pazzesca, i pugili di casa si fanno tutti intorno al loro campione, magari può anche essere un caprone, ma è uno che picchia per far valere la sua legge, che ti spacca le mani, non gli frega che non ci sia titolo in palio, che sia solo un allenamento, è gente che alle spalle ha 15 anni di galera per omicidio, sono bestioni che vengono dal football. Ma una cosa così ti carica, capisci che lì dentro ognuno ottiene secondo i propri meriti, per quello che vale. Sarà una legge feroce, crudele, ma ha una sua onestà. In America il ring ha un odore. Sa di sudore, di sporcizia. Anche se si trova su una statale qualsiasi. Anche quello più misero di Jersey City puzza di qualcosa che è stato grande, ci trovi vecchi sedili di legno da cinema, poster ingialliti. Le palestre italiane invece hanno l’odore del freddo e del vuoto». Un anno fa era un dilettante reduce dal bronzo di Sydney, protetto dalla canottiera azzurra e dal caschetto, oggi è un professionista di trentun anni che cerca di non farsi ammazzare sui ring a stelle e strisce, con una madre che continua a dirgli di lasciar perdere perché fa un mestiere dove si finisce suonati. In un anno per Vidoz tutto è cambiato. Lingua, casa, carriera. «Verissimo. Sono cambiato, mi sento più esperto. Prima ogni volta che salivo sul quadrato avevo la sensazione che mi mancasse la maglietta, ora sono più sicuro, ho combattuto una volta ogni due mesi, ma solo gli ultimi tre avversari erano decenti. Quattro successi per ko, tre ai punti. Vuol dire che non ho un pugno fortissimo, anche perché ultimamente la mano destra mi fa male. Non sono diventato ricco, 30 milioni a incontro, ma la metà l’ho lasciata alle tasse. Io i pugili li rispetto, anche quelli che hanno solo grinta, non sopporto quelli alla McNeeley, che vanno giù come barattoli senza nemmeno provarci. Quelli sono disonesti e basta, e se sono furbi non m’interessano. Tra Tyson e Lewis io cento dollari li butterei sul secondo». Si capisce che a Vidoz piacciono gli odori. Perché addosso ha quello dell’aglio. «Si sente eh?». Accidenti, se si sente. «Ne mangio tantissimo, ne vado pazzo. Ammetto che baciarmi è un problema». è stato un anno nuovo e diverso per lui. «Tra i miei programmi c’è anche quello di combattere per il titolo italiano, ne ho già vinti sei, ma ci sono affezionato, per me significa molto, non è perché sono andato in America che voglio fuggire dall’Italia, anzi spero che Cherchi e Branchini riescano a costruire qualcosa per me anche qui. Lo so, nelle nostre palestre non c’è nessuno, ma se proprio devo dire la verità io preferirei morire vecchio, da pugile che si allena tre ore al giorno. Ho lavorato alla catena di montaggio, ho fatto freni, ho amici che stanno in fabbrica, vedo le cassiere ai supermercati. E mi chiedo: è vita?». è vita prendere cazzotti? «Bè, quelli ai marroni sono dolorosi, quelli sul naso fanno un male bestia e quelli al mento ti spengono le lampadine. Ma sei tu, vivo o morto. Non sei un pezzo dell’ingranaggio, che deve lavorare e non sentire niente. Noi pugili forse facciamo un brutto mestiere, ma sentiamo tutto, fino in fondo». Emanuela Audisio