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 2002  gennaio 04 Venerdì calendario

Bobby Fischer, l’ebreo di Brooklyn che odia Israele e l’America, Il Venerdì, 4 gennaio 2002 Ha pianto tutte le torri cadute durante la sua carriera, ricorda il match e la posizione, ma per quelle ”gemelle”, mangiate con il loro carico umano sulla scacchiera di Manhattan, Bobby Fischer non ha versato una lacrima

Bobby Fischer, l’ebreo di Brooklyn che odia Israele e l’America, Il Venerdì, 4 gennaio 2002 Ha pianto tutte le torri cadute durante la sua carriera, ricorda il match e la posizione, ma per quelle ”gemelle”, mangiate con il loro carico umano sulla scacchiera di Manhattan, Bobby Fischer non ha versato una lacrima. Anzi, le sue sono state parole di tripudio: «è una notizia meravigliosa. è arrivato il momento di farla finita con gli Stati Uniti una volta per tutte». Così parlò il re degli scacchi, dopo l’attentato dell’11 settembre, a Radio Bombo, una minuscola emittente filippina. Il conduttore sapeva di avere sotto mano un ospite raro ed esplosivo: «Cosa ha provato?». «Sono stato felice e non potevo credere a cosa stava accadendo. Dopo tutti i crimini che il mio paese ha commesso nel mondo, ciò dimostra che quel che è fatto è reso. Plaudo a questo atto: gli Usa e Israele hanno massacrato i palestinesi per anni e oggi ne pagano il prezzo». Una bomba, l’esternazione a sorpresa del più grande scacchista di tutti i tempi, il genio-inetto che vinceva in 30 mosse ma aveva difficoltà a legarsi le stringhe delle scarpe, l’ebreo che odia gli ebrei e che da un quarto di secolo gioca a nascondino con il mondo, compresa l’Fbi che gli dà la caccia per evasione fiscale e per aver fatto una pernacchia a un diktat di Washington. è stato lui, interrompendo per pochi minuti il suo isolamento, a chiamare al telefono Pablo Mercado e commentare a caldo le immagini che quel giorno scorrevano in tv. Da dove chiamasse non si sa, ma la sua vita da recluso si alterna negli ultimi anni tra il Giappone e l’Ungheria. E ha scelto proprio Mercado perché è amico di Eugenio Torre, gran scacchista filippino, una delle poche persone al mondo di cui ancora si fidi. L’aveva già fatto nel ’99, d’altronde: «Perché ha scelto di vivere a Budapest?», era stata una delle domande per rompere il ghiaccio. «Ci sono le donne più belle del mondo. Non scherzo: si vedono più donne belle qui in cinque minuti che a Los Angeles in una settimana...». Ma se non era di buon umore - come successe lo stesso anno in un’inaspettata intervista a una radio ungherese - la risposta cambiava: «Il motivo più serio è che abito qui perché sono perseguitato giorno e notte dagli ebrei, quegli ebrei che si sono impadroniti degli Stati Uniti», per poi precipitare in un sempre più vorticoso turpiloquio anti-semita che a un certo punto aveva costretto il conduttore a tagliare il collegamento. Quanto tempo era passato da quando gli avversari rimanevano attoniti di fronte alla sua calma assoluta. «Il ragazzo non sembra arrabbiarsi mai», aveva notato Jim Sherwin, uno dei tanti che perse contro di lui nel gennaio del 1958 quando «in una stanza affollata del Manhattan Chess Club» (nella cronaca di William Nack su un ”Newsweek” dell’epoca) «un timido brookliniano di 14 anni si sistema sulla sedia, tira su i suoi pantaloni di velluto marrone per stare più comodo e allarga il collo del suo maglione nero da sci. Poi raggiunge la scacchiera di fronte a lui e muove un cavallo davanti all’alfiere dell’avversario». Dei 10 milioni di giocatori statunitensi di quell’anno solo i migliori quattordici erano stati invitati per il campionato nazionale, e il moccioso li batté tutti. Nato a Chicago il 9 marzo 1943, due anni dopo Bobby si era già trasferito a Brooklyn assieme alla madre - i suoi avevano divorziato presto - e alla sorella. Gli comprarono la prima scacchiera a 6 anni, con la speranza che l’avrebbe tenuto lontano dalla strada. Da allora non fece null’altro. «Geni come Beethoven, Leonardo da Vinci, Shakespeare e Fischer vengono fuori dalla testa di Giove, sembrano essere geneticamente programmati, conoscono le cose prima che qualcuno le insegni loro», ha scritto John W. Collins, uno dei suoi maestri, una sorta di padre per lui, ma avevano poi rotto in seguito ad alcune affermazioni razziste dell’ex pupillo. Da buon americano nel bel mezzo della guerra fredda il giovane Fischer non faceva mistero di odiare l’Unione sovietica e il comunismo in particolare. Un’avversità ideologica che rese ancora più entusiasmante la conquista, il primo settembre 1972 a Reykjavik, del titolo di campione del mondo contro il russo Boris Spassky. Il primo yankee che, nel ventesimo secolo, era riuscito a vincere sui rossi. Le sue capacità mentali divennero subito leggendarie, la memoria soprattutto. Durante il suo breve giro per l’Islanda, in attesa del match decisivo, una mattina chiamò al telefono Frederick Olaffson, l’unico ”gran maestro” del paese. Chiese di lui in inglese e la figlia gli dette una lunga risposta in islandese di cui non capì nulla, ma che la stessa sera ripeté per filo e per segno facendosela tradurre nello stupore generale. Il suo quoziente di intelligenza di 180 era stellare (Einstein, per intenderci, era poco sopra 160) ma servì involontariamente a ridimensionare la portata di tali misurazioni: fuori dal suo campo di gioco Bobby era un imbranato totale, non sapeva fare quasi nient’altro. Quando nel ’75 gli tolsero il titolo a tavolino, dunque, il suo mondo si sgretolò. Il suo sfidante avrebbe dovuto essere Anatoly Karpov ma il campione in carica tentò di imporre alla Federazione Internazionale delle inconsuete condizioni per cui, se il match fosse stato sempre pari dopo 24 partite, lui sarebbe rimasto il campione. L’organismo rifiutò, Fischer decise di non giocare e il primato passò, senza che un pedone fosse mosso, all’azero Karpov. Una sconfitta che non ebbe mai luogo e che innescò la picchiata del campione, che non si ritenne mai ”ex”. Cominciò a vagare per la California, tra Los Angeles e Pasadena dove si trovava il quartier generale del gruppo evangelico fondamentalista al quale si era convertito. Fu arrestato per errore dalla polizia sulle tracce di un rapinatore di banca che gli assomigliava. Una brutta avventura che inasprì il risentimento nei confronti della sua nazione. «Intorno alle 2 di notte del 26 maggio 1981, mentre stavo pacificamente e legalmente camminando...», è l’incipit di Sono stato torturato nella prigione di Pasadena!, un libello che scrisse e fece stampare e diffondere a sua spese. Ma il vero strappo fu nel ’92 quando, in barba all’embargo imposto dall’amministrazione Bush contro la Serbia di Milosevic, accettò la proposta di replicare il match con Spassky a Sveti Stefan, a pochi chilometri dal teatro di guerra. «Questa è la mia risposta», disse in conferenza stampa dopo aver sputato davanti alle telecamere sulla lettera di diffida del ministero del Tesoro. Vinse per la seconda volta e si portò a casa, oltre al premio da 3 milioni e mezzo di dollari, un ordine di cattura caldeggiato dal Presidente in persona. Alla decisione di restare nell’Europa dell’Est contribuì molto l’incontro con Zita Raiczanyi, un’adolescente scacchista ungherese con la quale andò a vivere a Budapest. Pensava a lei quando, rispondendo a un cronista che gli chiedeva di confidargli che tipo di persone gli piacessero, elencò: «Le ragazze vivaci con le tette grandi, i bombaroli kamikaze, Hitler». Pensava sempre a lei quando, qualche tempo più tardi, qualcun altro gli chiese di dire quali categorie umane detestasse di più: «Gli ebrei, gli americani e i giornalisti» (Zita lo lasciò per un reporter un anno dopo, ndr). Seguirono sporadiche e incongrue apparizioni. Nel settembre del ’96 è avvistato in Argentina, nella libreria schacchistica di Juan Morgado, come prova la ricevuta con la sua firma per 249 dollari di libri, che pagò in contanti estraendo un enorme rotolo di banconote da un marsupio di pelle. Nel ’99 fa alcune sparate radiofoniche anti-sioniste e quest’anno Nigel Short, un gran maestro inglese, giura di aver giocato contro di lui in incognito in un torneo su Internet: «Sono sicuro al 99 per cento che fosse lui, ed è stato tremendamente eccitante». Il Bobby campione era smilzo, portava cravatte scure e strette, e sorrideva spesso. Il Fischer fuggitivo è un cinquantottenne malvissuto e sovrappeso: «Mangia come un ossesso, ecco perché è così grasso», spiega Pablo Ricardi, ex campione argentino e suo commensale in un ristorante giapponese dove, quando non aveva la bocca piena, mitragliava sul fatto che «la maggior parte degli incontri internazionali sono truccati, compreso quello dell’85 per il titolo tra Karpov e Kasparov». Il suo secondo argomento di conversazione preferito, superato solo dall’ossessione anti-semita che - nel suo commento radiofonico dell’11 settembre - gli aveva fatto sostenere la tesi per cui gli israeliani sarebbero stati i veri responsabili dell’attacco al World Trade Center. Una bufala circolata in rete che quozienti d’intelligenza ben inferiori a 180 erano riusciti a smontare. Riccardo Staglianò