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 2006  marzo 31 Venerdì calendario

La commedia degli onorevoli italo-esteri. Corriere della Sera 31 marzo 2006. Buenos Aires. All’angolo fra l’Avenida Libertador e la Calle Billinghurst un manifesto chiede al passante di votare per due persone che lo guardano negli occhi con serena sicurezza: Dario Cesar Ventimiglia, candidato al Senato della Repubblica, e Giovanni Jannuzzi, candidato alla Camera dei Deputati

La commedia degli onorevoli italo-esteri. Corriere della Sera 31 marzo 2006. Buenos Aires. All’angolo fra l’Avenida Libertador e la Calle Billinghurst un manifesto chiede al passante di votare per due persone che lo guardano negli occhi con serena sicurezza: Dario Cesar Ventimiglia, candidato al Senato della Repubblica, e Giovanni Jannuzzi, candidato alla Camera dei Deputati. Il manifesto parla spagnolo ma il Senato e la Camera non sono quelli della Repubblica argentina. Ventimiglia e Jannuzzi vogliono un seggio nel Parlamento italiano e «corrono» per una lista denominata «L’Unione-Prodi». Il primo è nato a Rosario nel 1958 e vive in Argentina da sempre. Il secondo è nato a Roma nel 1935 ed è stato ambasciatore d’Italia a Buenos Aires negli anni Novanta, ma vive in Patagonia. La posizione del manifesto è strategica perché dietro il volto dei due candidati s’innalza, al di là di un grande cancello, la facciata in stile belle époque dell’ambasciata d’Italia. Ma la maggior parte della campagna elettorale si è svolta nelle sedi delle associazioni italiane, in qualche cinema o teatro. Vi sono state tribune elettorali di Rai International, interviste, dibattiti. La stampa e la televisione argentine hanno seguito l’avvenimento con simpatia. Per i lettori che non sono riusciti a staccare gli occhi da Berlusconi, Prodi e altri comprimari dello psicodramma elettorale italiano, è bene ricordare che vi saranno in Parlamento, nella prossima legislatura, dodici deputati e sei senatori eletti dagli italiani all’estero, e che l’Argentina è fra i Paesi in cui il numero degli elettori potenziali (circa 350.000, un decimo dell’elettorato mondiale) è più alto. Chi si affanna a calcolare il rapporto di forze tra centrodestra e centrosinistra dopo le elezioni, farebbe bene a ricordare che esisterà d’ora in poi nella politica italiana una variabile rappresentata dal pacchetto dei parlamentari eletti al di fuori del territorio nazionale, uomini e donne che hanno lasciato l’Italia da molti anni, se non addirittura da due o tre generazioni. Qualcuno potrebbe osservare che l’Italia ha finalmente deciso di allinearsi alla pratica della maggior parte delle grandi democrazie. Non è completamente esatto. Con il metodo adottato per la partecipazione al voto dei suoi connazionali nel mondo, l’Italia è improvvisamente passata dalla sua vecchia posizione di fanalino di coda a quella di «primo della classe». Nella maggior parte dei casi, infatti, i cittadini all’estero delle maggiori democrazie partecipano alle elezioni nazionali in tre modi: inviano la loro scheda al comune di cui sono stati residenti prima di partire, votano presso il consolato della circoscrizione in cui abitano, designano un procuratore residente in patria a cui conferiscono l’incarico di votare in loro nome; ma scelgono sempre, in ciascuno dei casi, gli stessi candidati per cui votano i loro compatrioti rimasti in patria. Nel caso italiano invece gli elettori inviano la loro scheda al consolato, ma votano per candidati residenti nei quattro grandi collegi elettorali in cui Mirko Tremaglia, autore della legge, ha diviso il mondo: Europa, America meridionale, America settentrionale e centrale, e un pot-pourri composto da Africa, Asia, Oceania e Antartide. Vi sono altre differenze. In molti Stati (la Gran Bretagna, ad esempio) gli elettori che hanno una doppia cittadinanza possono votare soltanto se hanno conservato la residenza nel Paese d’origine. In Italia, invece, una generosa legge sulla nazionalità ne ha permesso la concessione a molti che l’avevano perduta e ha considerevolmente gonfiato il numero degli elettori potenziali. In molti Paesi il cittadino all’estero perde il diritto di voto se il suo espatrio ha superato un certo numero d’anni (dieci nel caso della Germania). In Italia invece Davide Cesar Ventimiglia, nato a Rosario 48 anni fa, può non soltanto votare, ma candidarsi per l’Ulivo, e Antonio Aldo Chianello, nato a Rio de Janeiro 52 anni fa, può fare altrettanto per Forza Italia. Esiste un Paese, per la verità, dove il sistema elettorale ricorda quello italiano. E’ la Francia, dove i cittadini residenti all’estero hanno il diritto di partecipare alle elezioni nazionali e possono anche, al tempo stesso, designare i loro rappresentanti in un’Assemblea consultiva (il Conseil Supérieur des Français à l’Etranger) da cui vengono estratti 12 senatori. Ma il Senato francese, nella Costituzione della V Repubblica, non ha né il potere di approvare il bilancio né quello di votare la fiducia al governo ed è quindi una Camera dimezzata. Nell’Italia «prima della classe» invece, dodici deputati e sei senatori siederanno in due Camere gemelle che resteranno tali verosimilmente per tutta la legislatura se il referendum del prossimo giugno boccerà la riforma costituzionale del governo Berlusconi. Che cosa faranno del loro voto, a Roma, i parlamentari degli italiani all’estero? L’indicazione più interessante viene da un candidato argentino, Luigi Pallaro, che ha ottime possibilità di essere eletto al Senato. Pallaro ha ottant’anni e, alle sue spalle, una ammirevole carriera economica come agricoltore (parecchi milioni di capi di bestiame, secondo i miei interlocutori di Buenos Aires) e creatore di imprese industriali. Dopo essere stato sollecitato dalla destra e dalla sinistra, Pallaro ha deciso di creare la sua lista («Associazioni italiane in Sud America») e ha lasciato intendere, senza arrossire, che in Parlamento avrebbe votato con la maggioranza. Non ha torto. Se il suo collegio è in Argentina, il suo principale obiettivo non è la soluzione dei problemi della madrepatria, ma la soddisfazione delle esigenze dei suoi elettori. Chi, se non la maggioranza, può permettergli di tornare a Buenos Aires con qualche concessione di cui vantarsi? Resta da capire quali siano le concessioni che i parlamentari degli italiani all’estero sperano di ottenere dal Parlamento italiano. Rai International ha trasmesso negli scorsi giorni una tribuna elettorale a cui ha partecipato una dozzina di candidati dell’America Latina. Quando il moderatore ha chiesto a ciascuno di essi di riassumere il suo programma in due minuti, i candidati hanno risposto in un italiano esitante, zoppicante e pieno di ispanismi elencando fra le promesse agli elettori la pensione sociale (un assegno mensile per ogni italiano all’estero, indipendentemente dai contributi versati), assistenza sanitaria, rafforzamento dei consolati e del servizio di cittadinanza, iniziative culturali ed educative. Mi chiedo se tutti si rendano conto della differenza esistente fra ciò che un governo ha il diritto di fare in patria per i propri cittadini e ciò che può legittimamente fare all’estero per i propri emigrati. Vi sono Paesi (Australia e Canada per esempio) che non hanno alcuna intenzione di tollerare la nascita nel loro territorio di comunità «extraterritoriali», vincolate da rapporti di lealtà e dipendenza con uno Stato straniero. In Argentina questo rischio, apparentemente, non esiste. In un editoriale del 21 marzo, La Nacion (il quotidiano che si vende in Argentina insieme al Corriere della Sera) descrive le elezioni come «un ponte fra l’Italia e il nostro Paese, legame molto benefico per ambo le nazioni». E aggiunge, forse con troppo ottimismo, che i parlamentari italiani provenienti dall’Argentina «potranno occuparsi di tutti gli aspetti connessi con lo sport, l’arte, la tecnologia e la ricerca, terreni fertili e poco esplorati delle relazioni fra i due Paesi». Questa ottimistica apertura è comprensibile. L’Argentina non ha dimenticato che vi sono almeno due circostanze in cui le comunità italiane hanno reso alla patria adottiva un considerevole servizio. La prima risale alla guerra delle Falklands allorché i rappresentanti degli italiani di Argentina fecero pressioni sul governo italiano perché rinunciasse alla sua originale posizione filobritannica e divenisse più comprensivo delle esigenze nazionali argentine. La seconda è più recente. Quando il governo del presidente Nestor Kirchner offrì ai proprietari italiani di bond argentini (circa 400.000) un rimborso pari al 30% del valore originale, i rappresentanti delle comunità italiane non andarono alla Casa Rosada per spezzare una lancia a favore dei connazionali in patria. Capisco le loro ragioni. E’ comprensibile che un emigrato dia prova di lealtà e gratitudine per il Paese che lo ha accolto. Ma questi episodi sembrano confermare che nessun partito politico italiano, nella prossima legislatura, potrà illudersi di fare totalmente conto sui rappresentanti degli italiani all’estero, anche quando sono stati eletti su una lista che porta il suo nome. Sergio Romano