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 2002  gennaio 08 Martedì calendario

Il fico d’India avrà pure le spine, ma è generoso e sopporta la sete, la Repubblica, martedì 8 gennaio 2002 Ho letto domenica l’intervista di Ezio Mauro a Gianni Agnelli con un crescente sconforto: infatti sono molto europeista

Il fico d’India avrà pure le spine, ma è generoso e sopporta la sete, la Repubblica, martedì 8 gennaio 2002 Ho letto domenica l’intervista di Ezio Mauro a Gianni Agnelli con un crescente sconforto: infatti sono molto europeista. Arrivato all’ultima risposta, lo sconforto è precipitato in disperazione: infatti sono molto amatore di fichi d’India. «Non sente in giro un po’ di profumo di banane?», chiede Mauro. Risposta: «Nel nostro Paese, purtroppo, non ci sono nemmeno banane. Ci sono soltanto fichi d’India». Per l’Europa, ahimè, non posso niente: ma ecco, senza scherzi, la mia competente difesa del fico d’India. (Fornirò le pezze d’appoggio). Oltretutto, ci sono implicazioni diplomatiche. La bandiera del Messico è identica all’italiana: salvo il fico d’India in campo bianco. Più esattamente: l’aquila appollaiata su un fico d’India che mangia un serpente. Infatti l’Opuntia ficus-indica fu pianta sacra e fondativa dell’Impero Azteco. Più imprevista è la consacrazione del fico d’India a pianta distintiva del Texas. Nomina fresca, del 1995: ma già nel 1918 i texani avevano una divisione dell’esercito che si chiamava Cactus Division e si schierava in forma di fico d’India. Non doveva esser facile. In inglese si chiama Prickly pear, pera spinosa: nome che i produttori californiani per il mercato americano stanno cercando di sostituire con quello più appetibile di cactus pear. In Israele si chiama sabra, che è anche il nome degli ebrei nati nel paese. Gli aztechi la chiamavano nopalli. Il nostro nome è bello. Che somigli fisicamente al fico, non mi pare: ma moralmente sì. Per la generosità estrema. Cresce dovunque, sulle rocce, sulle tegole, e sopporta la sete. Il Vangelo ama specialmente il fico, e se avesse conosciuto il fico d’India lo avrebbe benedetto. difficile immaginare il mondo prima della scoperta dell’America: un mondo senza patate, senza pomodori, senza peperoni - senza fichi d’India. Impossibile immaginare una Sicilia senza fichi d’India, e un’Italia senza Sicilia. Nel lato meridionale della mia infanzia i fichi d’India erano cruciali. Facevano siepe dappertutto, come i pioppi frangivento nelle Americhe, los alamos. Servivano ai monelli per il tiro a segno e agli innamorati per incidere cuori e iniziali sulle pale (tecnicamente: cladodi). Anche le agavi, che però sono più delicate, e fioriscono per morire. E a proposito di banane, dirò che erano frutti di Natale, banane indigene e fichi d’India e meloni bianchi. Le pale di fichi d’India coi bei frutti maturi (e che fiori, e che colori!) si conservavano per l’inverno appese alle pareti soleggiate. Le banane crescevano e formavano il loro casco di frutti, che veniva staccato e continuava a maturare al chiuso, dentro certi sacchi di carta da cemento e paglia: pronti per Natale, appunto. Del resto il fico d’India è diventato di casa perfino sulle colline fiorentine attorno a casa mia, miniaturizzato e strisciante, con frutti perfetti benché troppo piccoli per essere commestibili, ma con fiori di squillante zafferano, grandi come quelli degli antenati di taglia forte. Io non ho la patente ma leggo Marella Agnelli, la quale saprà senz’altro in qual pregio venissero tenuti i fichi d’India negli orti botanici e nei giardini nobili dalla metà del Cinquecento. Certo, hanno le spine. Ma anche le rose. E adesso, in un’epoca smaniosa di togliere i peccati dal mondo e i semi dai mandarini e il pelo dai gatti, anche i fichi d’India vengono promessi senza spine, e senza semi: a Catania o nel Belice. Andrà perduta la bella maestria dei pulitori e tagliatori di fichi d’India. Compreso il coyote, di cui si dice che spazzoli via le subdole spine uncinate dei frutti con la coda. Mi pare che fosse Tomasi di Lampedusa a dividere fra scrittori grassi e scrittori magri. Ci si può dividere anche fra amatori di piante grasse o magre. L’Italia si va desertificando. Non so che pianta rappresenterebbe meglio la stanca repubblica. La politica ne ha confiscate parecchie, rose e garofani, ulivi e querce e margherite e girasoli. Il cipresso è magnifico, ma è troppo toscano, e troppo falcidiato dalle malattie. Anche troppo lugubre, secondo alcuni, che sbagliano. Del resto in Sicilia i fichi d’India crescono spesso attorno ai camposanti, e Pitrè annota la frase «Jiri a guardari ficudinnia», cioè morire. Ma in Sicilia tutto va a parare alla morte, e quando la gente capisce che cosa vuol dire «Vitti na crozza» ci rimane male. Goethe decise per i limoni - «Conosci il paese dove fioriscono i limoni». Anche loro (e aranci mandarini cedri e altri agrumi) arrivarono tardi, e portati dagli arabi. Certo, sono bellissimi. Nella Genova del G8 si fece dell’ironia fuori luogo sui limoni legati col filo alle piante, come alberi di Natale in pieno luglio: era invece la cosa più apprezzabile di quel disastro. Basta ricordarsi i limoni cuciti nei festoni di terracotta invetriata dei Della Robbia. Forse i limoni, dunque. Oltretutto mettono insieme Liguria e Calabria, Sicilia e Garda. I fichi d’India no. La palma va al nord, loro no. Però teniamoli cari. Magari la vita pubblica italiana sapesse essere così modesta ed equilibristicamente in bilico e succosa e fruttuosa. Mi resta da rimandare alla bibliografia. In realtà ne so poco, ma sono amico di Giuseppe Barbera e di Paolo Inglese, professori di fichi d’India, come dicono orgogliosamente i loro figli, all’Università di Palermo. Hanno appena pubblicato Ficodindia, un volume sontuosamente illustrato, edizione L’Epos. Fra le curiosità lì profuse voglio citare la più ricca di colore locale, raccontata anni fa da Daniele Billitteri sul ”Giornale di Sicilia”: l’antico fotoreporter Natale Giaggioli scoprì che i giornali nazionali pubblicavano le foto degli omicidi siciliani solo se sullo sfondo si vedeva un fico d’India. Perciò si fece costruire un fico d’India di cartapesta e se lo portava nel bagagliaio dell’auto. Quando arrivava sulla scena di un omicidio estraeva la pianta, la drizzava accanto al cadavere, e scattava. Adriano Sofri