Antonio Gnoli la Repubblica, 04/01/2002, 4 gennaio 2002
Il filosofo buongustaio che odia il rosbif tagliato a macchina, la Repubblica, venerdì 4 gennaio 2002 Roma
Il filosofo buongustaio che odia il rosbif tagliato a macchina, la Repubblica, venerdì 4 gennaio 2002 Roma. Il professor Tullio Gregory, esimio esperto di studi medioevali e secenteschi, sta allegramente entrando nel suo settantatreesimo anno di età. Mi dicono sia un uomo potente. stato nel consiglio d’amministrazione della Rai. Accademico dei Lincei, fondatore e direttore del Lessico intellettuale europeo, barone temuto dell’Università di Roma, ha insegnato per qualche anno anche alla Sorbonne. Le sue maniere sono spicce, ma anche lievemente aperte alla curiosità. Per tutta la vita ha fatto lo storico della filosofia, ha prodotto pochi libri ma importanti e si è scoperto, nel corso del tempo, una vera passione per la gastronomia. Tra il Coppi e il Bartali della filosofia - ovvero tra Croce e Gentile - parteggia per il primo. Dice: «Per me non esiste la filosofia in senso stretto, essa è un modo per guardare alla storia della cultura. Per questo amo Croce e quel suo gusto per la molteplicità. Gentile è stato indubbiamente un grande pensatore, ma troppo monolitico per il mio gusto. Croce invece, con quella sua idea della circolarità dello spirito, ha aperto interessanti prospettive». E sarebbero? «Un momento faccio il filosofo, un altro ancora il politico, o magari mi occupo di poesia». Mi scusi, ma anche Croce ambiva al sistema. «Ma naturale, però nel fare storia delle culture filosofiche io ho sempre cercato di evitare questo aspetto. Compito dello storico è disarticolare, non costruire». Perciò tutto finisce sullo stesso piano. «Non esistono gerarchie nell’attività umana. La sola regola è: fai bene il tuo mestiere». Un comandamento socratico. «Molto utile. Una specie di morale di fondo che vale per il medico, l’avvocato, il professore, il calzolaio...». E magari per il cuoco. «Perché no? Per fortuna non esistono più dignità maggiori o minori, arti liberali e meccaniche. Fare il cuoco non richiede meno professionalità di uno che fa il filosofo». Vogliamo allora parlare di cibo? «Parliamone ma come esperienza conviviale e non solo come fatto nutrizionale. In molte parti del mondo si tenta ancora di sopravvivere alla fame. Da noi si paga per non mangiare». Lei è un gourmet, scrive ogni tanto articoli sulla cucina e ha anche pubblicato un decalogo del gastronomo. Meglio la cucina creativa o quella tradizionale? «Non ho dubbi. La prima è una cucina dell’improvvisazione. L’altra è la sola che valga. Perfino la Francia che ha inventato l’orrenda nouvelle cousine si è ricreduta e ora reclamizza la cucina tradizionale». Cosa intende per cucina tradizionale? « la cucina in rapporto al territorio e alle stagioni». Il territorio è sempre meno identificabile e le stagioni si saltano. « vero. Ma già nel Cinquecento Bartolomeo Scappi annotava che se si hanno buoni destrieri e argento si ottiene tutto ciò che si vuole quando si vuole. Il problema è che la cucina risponde a una cultura e la cultura non può prescindere dalla tradizione». Perché è contrario alla cucina creativa? «Perché mette tutto sul conto e niente nel piatto. Brillat-Savarin osservava che le grandi dimensioni ricreano lo spirito. Ricordo che fino a qualche anno fa i ristoranti seri servivano tutto in piatti di portata. La tendenza attuale invece è di offrire piatti individuali, possibilmente microscopici». Si mangia meno. «Si mangia con più frustrazione». Ma anche con maggiore fantasia. «E quale sarebbe: il piatto zen? Una seppia bianca su fondo nero, o due gamberetti su un letto di insalata, o magari due maccheroni ripieni? Tutto questo mi sembra esprima un minimalismo presuntuoso. Un famoso chef si fece fare dei piatti con un buchetto al centro dove metteva le cose che serviva. Così finiamo nel ridicolo». Più semplicemente c’è un’estetizzazione della cucina. «Ma vede, l’estetizzazione è sempre esistita. Di per sé non è un ostacolo. Prima l’estetica investiva gli apparati della tavola. Oggi che gli apparati sono stati eliminati, si è concentrata nel piatto. Faccio uno schizzo rosso e in mezzo ci metto un frammento verde. Così si sazia l’occhio, ma si trascura lo stomaco». Ammetterà che l’occhio a tavola è importante, pensi alla grande esibizione dei banchetti del Cinquecento. «Non discuto. Da lì si arriva grosso modo fino ad Antonin Carême. Che a cavallo tra il Sette e l’Ottocento scrive un meraviglioso trattato su come apparecchiare la tavola. Dunque è bene che a tavola l’estetica venga osservata, alla presenza, come diceva Voltaire, della statua della dea ragione». Come ne giustificava la relazione? « noto che alcuni romanzi di Voltaire si svolgono a tavola. Perché la tavola è il momento in cui anche uomini di differente opinione finiscono con l’andare d’accordo». Lei citava Carême che fu anche cuoco di Talleyrand. Fu il loro un vero sodalizio? «Come può esserci tra un grande artigiano e uno stratega della politica che seppe passare indenne da un regime all’altro. Carême fu all’altezza della fama di Talleyrand. Scrisse libri di cucina importanti e a lui, pare, dobbiamo le famose frittes francesi, le patatine a fiammifero. Fu uno degli ultimi rappresentanti di uno splendore che si andava affievolendo». A che cosa allude? «Al fatto che gli anni di Carême sono anche gli ultimi in cui le famiglie illustri e le grandi personalità si possono permettere il cuoco rinomato. Dopo di allora assisteremo alla nascita del ristorante. Trionfa la borghesia e con essa i buoni locali». Cambia il potere e con esso le maniere di esibirlo. «Più o meno è così e credo che la tavola sia un buon punto di osservazione. A me, ad esempio, piacerebbe molto sapere che cosa bevono i nostri uomini di potere, con quali vini abbinano i loro piatti». Insinua un certo dilettantismo. «Non mi pronuncio. Ma a tavola ho l’impressione che abbiamo perso alcune abitudini gastronomiche». Per esempio? «Vedo tramontare i grandi rosbif della cucina inglese. Oggi un piatto di alta classe come questo, presentato e tagliato direttamente sulla tavola sarebbe considerato uno scandalo». Lei che parte predilige per preparare il rosbif? «Il taglio dove finisce la costata del manzo e comincia il culaccio. Sto parlando di un pezzo di carne da sei o sette chili, con una soffice striscia di grasso sotto. Una volta cucinato va tassativamente tagliato a mano e non a macchina, raccomando un taglio alto due dita». Non crede che si nasconda un certo fanatismo in tutta questa filologia? «Ci sono cose inammissibili, in cucina come altrove. Tagliare il rosbif a macchina è indecoroso, quasi come servire i formaggi appena estratti dal frigorifero». Sta recitando il suo decalogo? «Sono dell’avviso che chiunque si occupi a un certo livello di cucina deve esprimere chiaramente i criteri ai quali si ispira». Oltre all’estetica c’è anche un’etica della cucina? «L’etica è fare bene il proprio mestiere. Oggi proliferano luoghi assurdi, ristoranti improbabili, chef improvvisati. Si propinano precotti, si spacciano per invenzioni mescolanze astruse. Non siamo più nella gastronomia, ma nella cialtroneria». Le piace cucinare? «Mi piace, ma non lo faccio molto spesso. Parecchie volte mangio fuori». Ma quelle volte in cui cucina lo fa seguendo rituali precisi o cosa? «Diffido dell’inventiva. Come in ogni disciplina, anche per la cucina, esistono i manuali. Che vanno letti e poi interpretati. Ma l’importante è che ci si muova dentro dei binari precisi». Traduca. «Il piatto deve essere riconoscibile a tavola». A che cosa si riferisce, al gusto o a che altro? «Al gusto ma anche alla vista. Non occorre che arrivi lo chef a spiegare per un quarto d’ora che cosa si sta mangiando». Dei grandi manuali o ricettari quali apprezza? «Dopo il vecchio Artusi, che è anche un bel libro da leggere, i miei manuali di riferimento sono Escoffier e Bocuse, il quale ha recentemente dichiarato che la nouvelle cousine è tutta una truffa. Questi sono i ricettari di base, poi uno può anche affidarsi a ricettari regionali». Ha una predilezione per la Francia. «Direi piuttosto per il classico. Ottimo è anche il Carnacina». C’è un rapporto tra gastronomia e filosofia? «Ci hanno provato a instaurarlo. Ma i tentativi in questa direzione non mi convincono. Il solo principio in comune è questo: cerca di fare bene quello che fai». Lei, al ristorante, passa per un piantagrane. così? «Dipende. Se entro in un locale e trovo lo chef o il proprietario con la spocchia, io chiedo non uno, ma due termometri per il vino. La verità è che assistiamo a un netto peggioramento del gusto della cucina dovuto all’abbassamento del gusto dei clienti. Da un lato siamo invasi dal kitsch del turismo di massa, dall’altro dalle pretese di qualcuno di essere sommamente creativo. Un ristorante sempre più difficilmente è, come diceva Brillat-Savarin, l’eden del buongustaio. E quindi io faccio il rompiscatole». Cosa le piace di Brillat-Savarin, che in fondo è stato il primo gastrosofo moderno? «Ha scritto libri di meravigliosa lettura. Inviterei a leggere un suo capitolo dedicato alle provette gastronomiche. Si attribuì la più grande scoperta del secolo diciannovesimo». Qual era? «La cena che si deve offrire a un ospite di cui non si conoscono i gusti deve essere comunque commisurata all’entità del portafoglio. Ma aggiunse: se davanti al fagiano disossato e ripieno di tartufi all’ospite non vengono le lacrime agli occhi, ci si alzi e si consideri il pranzo terminato. Brillat-Savarin fu un uomo paradossale che scrisse libri di grande gusto». Nei migliori ricettari si riflette anche una parte della storia di un paese. «Si riflette l’arguzia stilistica, l’amore per la tradizione e a volte anche della buona letteratura. Ma i buoni cuochi che hanno fatto anche la storia del loro paese non ci sono più. In gran parte erano figure legate alle corti di Ferrara, Firenze, Milano, Napoli». Era una professione che si passavano di padre in figlio. «Non necessariamente. Le cucine erano botteghe di artisti popolate da bravi apprendisti. Pensi alla passione e all’abilità che occorrevano per diventare un buon trinciante. Ma qui finiamo nella teoria». La cucina è soprattutto una scienza empirica? «Direi che è in larga parte una scienza storica. Come dice Vico: si può studiare la storia solo conoscendo i modi del fare umano. Si è mai chiesto perché fuori dell’Italia non sanno cuocere gli spaghetti? Perché non conoscono il modo del fare». Più banalmente perché a loro la pasta piace scotta, usano farine di grano tenero. «Ma tutto questo è una conseguenza dei modi del fare. Se oggi le dicono prepari il cinghiale con la cioccolata, lei deve conoscere quel limite impercettibile in cui non si avverte più né il dolce né il salato, oltre il quale la pietanza diventa una schifezza. Ecco perché quando si verifica una grande interruzione di civiltà, come accadde nel Medioevo rispetto al mondo romano, allora si perdono i modi del fare. Nessuno ad esempio sapeva più che cosa fosse la cucina romana. Ancora oggi i tentativi di rifare la cucina di Apicio sono destinati al fallimento. Non ci sono più gli ingredienti, non conosciamo i sapori né i modi di cottura». Beh, l’uso del farro è un’eredità romana. «Sì, ma come lo si cucina? In un manuale del Quattrocento di Maestro Martino c’è la prima ricetta di quello che in seguito diventerà il risotto allo zafferano. Ma al posto del riso, lui consiglia di cuocere il miglio nel brodo e poi unirlo allo zafferano. Noi il miglio lo diamo ai pappagalletti». Forse ci manca anche il tempo. «La lentezza svolge un ruolo fondamentale in cucina. Ad esempio è fortemente controindicato l’uso di pentole in acciaio, vanno bene solo per bollire l’acqua, ma non per cucinare. L’acciaio è un ottimo conduttore di calore, meglio dunque l’alluminio o la ghisa che, insieme al coccio, sono materiali ideali per le lunghe cotture». Oggi si è scoperto il titanio. «Il titanio lo destinerei alla coltelleria. Siamo così a un altro dei capitoli fondamentali. In ogni cucina che si rispetti devono esserci almeno quattro o cinque coltelli importanti». Quali? «Il coltello delle grandi carni, in particolare quello da rosbif a lama ampia quattro dita che va a diminuire nella larghezza, il disossatore, si tratta di un coltello robusto e corto a base larga, ma la cui lama diventa subito sottile, il coltello da prosciutto». Non è preferibile il taglio a macchina? «Mai, ne altera il sapore. L’uso dell’affettatrice è consentito solo per il culatello, che è troppo stoppaccioso». Mai conosciuto uno esigente come lei. «Essere esigenti ci protegge dalle mode facili». A proposito di mode che opinione ha del sushi giapponese? «Non sono mai stato in Giappone. La mia opinione comunque è che una cucina fuori dal suo habitat è qualcosa di adattato». Quella giapponese si appoggia alla filosofia del crudo. «Sono convinto che la storia della civiltà sia legata al passaggio dal crudo al cotto». Esistono cibi naturali straordinari. «Trova? Il vino naturale è una schifezza. Nella cucina la cottura equivale alla meditazione». E del tartufo cosa dice? «Che è un’altra cosa. Un amico, teologo francese, osservava che l’ultima teofania prima di Dio è il tartufo, parliamo di quello bianco ovviamente. Ad ogni buon conto cerco di non dare giudizi sulle cucine esotiche, che conosco assai poco». Che cosa pensa della critica gastronomica? «Né bene né male. Dico soltanto che ognuno prima di giudicare dichiari le proprie categorie di appartenenza. Così riusciremo anche a capire le enormi disparità che a volte si determinano nel giudicare la qualità di un ristorante, di un vino o di una pietanza». Resta un margine di arbitrarietà, di gusto personale. Non trova? «D’accordo, ma prima esistono i famosi modi del fare. Se mangio un’amatriciana devo sapere che si usa il guanciale e non la pancetta». La pancetta va bene per la Carbonara. «La Carbonara è un piatto inventato, e ancora si disputa sul fatto se sia meglio l’uso della pancetta o del guanciale. In ogni caso quest’ultimo è più leggero». Se dovesse suggerire una cena o un pranzo ideale? «Punterei molto sui vini. Noi mangiamo quel che beviamo». Antonio Gnoli