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 2002  gennaio 09 Mercoledì calendario

Renato Ruggiero, un abate settecentesco imbattibile a poker, La Stampa, mercoledì 9 gennaio 2002 Mi viene a mente in questi giorni il vecchio detto secondo cui niente come il gioco d’azzardo rivelerebbe il carattere di un uomo

Renato Ruggiero, un abate settecentesco imbattibile a poker, La Stampa, mercoledì 9 gennaio 2002 Mi viene a mente in questi giorni il vecchio detto secondo cui niente come il gioco d’azzardo rivelerebbe il carattere di un uomo. Era un inverno dei primi Anni Sessanta. Mi rivedo in una dacia alla periferia innevata e ghiacciata di Mosca, seduto a un tavolo da giuoco accanto a un massiccio segretario dell’ambasciata italiana, di cui già da tempo ero amico oltreché compagno di svaghi e notturni tornei di poker. Rammento poco gli altri pokeristi di quei gelidi inverni alla Zivago. Solo vagamente ricordo il volto e non più il nome del padrone di casa, un cordiale ambasciatore argentino, che ci ospitava in quella sua dacia accogliente e ben riscaldata. Ricordo invece quasi tutto dell’ancor giovane diplomatico napoletano che si chiamava Renato Ruggiero ed era allora sulla trentina come me. La sua mole vibrante, il pelo rossiccio, l’energia frenata rivelavano il temperamento sanguigno ma composto di un giocatore di classe: un grande incassatore per due terzi della notte e grandissimo rilanciatore nello scattante terzo finale. Durante i temibili colpi d’ariete, di sfida, di rivincita, di vendetta, di temerità provocatoria, a cui i pokeristi s’abbandonano perlopiù verso la fine della partita, Ruggiero faceva scricchiolare il tavolino sotto il peso del suo corpo e dei suoi ultimi duri rilanci; poi, mentre aspettava calmo la reazione degli altri, prendeva a fissare evasivamente il vuoto con due occhietti cerulei candidi quanto insondabili. Era rarissimo, direi impossibile, coglierlo e smascherarlo in stato di bluff. Chi di noi andava a ”vedere” si ritrovava puntualmente al cospetto di una combinazione più forte; colui o coloro che invece rinunciavano, non andando a ”vedere”, restavano con l’amaro in bocca e col sospetto di essere stati bluffati proprio negli ultimi e dirimenti giri di mano. Era insomma altrettanto raro, quasi impossibile, che Ruggiero si alzasse perdente dal tavolo: le fiches, che poi cambiavamo parte in rubli e parte in valute occidentali, apparivano in gran parte ammucchiate sotto il suo faccione d’abate settecentesco, rotondo, amabile, sorridente e, come sempre, celato da un cordiale velo d’impenetrabilità. Non mi riuscì mai di sapere se i più temerari dei suoi rilanci fossero basati sul nulla oppure su combinazioni schiaccianti. Tutta la sua vorticosa carriera sarebbe stata poi così. Improntata cioè all’azzardo ad altissima temperatura, all’imprevedibilità dapprima sibillina, poi decisa, quindi aggressiva e infine trionfante nella stretta finale. In altre parole un vincitore nato: un maestro del rilancio, un ardito del colpo a sorpresa, un emulo straordinario dell’araba fenice che rinasceva ogni volta dalle ceneri fumanti di un incarico appena finito per assumerne uno ancora più incandescente. L’ho visto volare agilmente, con l’intera sua stazza da un quintale e passa, dalle sedi diplomatiche di mezzo mondo alla massima carica di segretario generale della Farnesina, dal ruolo di rappresentante italiano presso la Comunità europea al ministero del Commercio per l’estero, dagli uffici in vetrocemento di giganteschi complessi industriali ai vertici rarefatti, pressoché kafkiani, dell’Organizzazione del commercio mondiale. Il suo nome diventava via via uno dei nomi italiani più apprezzati nell’universo labirintico dei grandi affari e della grande politica internazionale. Maneggiava e rimescolava le lingue straniere come le carte del poker; anche se non ne conosceva alla perfezione qualcuna, dava tuttavia l’impressione di conoscerla meglio del suo interlocutore del momento. Fioccavano da ogni parte sulla sua testa lucida e grossa, spesso rigata da un filo di sudore lungo la fronte, sponsorizzazioni, inviti, richiami, coperture sempre più autorevoli. Craxi lo imbarcava come tecnico di punta nei suoi esecutivi, i rappresentanti dei Paesi in via di sviluppo all’Onu lo acclamavano come avveduto responsabile dei traffici mondiali, la Fiat lo voleva con sé, Henry Kissinger in persona desiderava vederlo alla guida della Farnesina. Doveva passare alla storia la pressione esercitata direttamente dall’ex segretario di Stato su Berlusconi perché gli affidasse, sempre come ”tecnico”, parola carismatica quanto volubile che può significare tutto e nulla, la conduzione della diplomazia italiana. Era quanto meno prevedibile che un personaggio di tale dismisura, asperso da incensi così penetranti ed efficaci, personaggio che non aveva certo bisogno d’inchiodarsi a vita su una poltrona sempre più concupita e assediata, potesse ad un certo punto sentirsi sufficientemente sicuro per tentare il rilancio più avventato della sua fortunosa carriera: l’intervista in cui denunciava pubblicamente l’assalto, sferrato contro il suo eurottimismo, da dissonanti colleghi antieuropei o europeisti ambigui. Ruggiero, forse sbagliando calcolo, si sentiva abbastanza solido e coperto per poter contrattaccare, vincere e incassare le fiches della puntata più alta e più fragorosa della sua vita. Purtroppo per lui, e per lo stesso Berlusconi costretto dalle circostanze ad andare a ”vedere” le carte, si è alla fine constatato che il giocatore era isolato e più debole dei suoi numerosi contestatori: Bossi, Buttiglione, Castelli, probabilmente Fini e certamente, più di tutti, Antonio Martino: un ministro della Difesa che non ha mai dimenticato di essere stato anche un ministro degli Esteri. Considero pure Martino mio amico e, in molte idee se non tutte, mio vecchio sodale di percorso liberale. Spero vorrà perdonarmi se ora, in tutta franchezza, dovrò muovere a lui, che si dichiara comunque liberalmente aperto al confronto delle opinioni, qualche critica leggera e più che altro perplessa. Lo farò, senza voler togliere nulla alla mia antica ammirazione per il suo ingegno mordace e la polemica fermezza con la quale ha sempre difeso l’originalità controcorrente delle sue posizioni. Ricordo ancora lo sconcerto del povero e già anziano Malagodi quando il giovanissimo Martino, fresco dei suoi studi americani, lo rimproverava di essere un uomo di sinistra. Anzitutto: perché mai sto sobbarcandomi a questa specie di minischizzo, diciamo ”plutarchiano”, di lui e di Ruggiero? Rispondo: perché, almeno a livello di cronaca, resta innegabile che il primo a lanciare senza nascondere la mano il sasso contro l’ex ministro degli Esteri è stato il ministro della Difesa, nell’intrecciato turbinìo della guerra al terrorismo e delle riserve di una parte del governo italiano davanti alla calata dell’euro da Francoforte e da Bruxelles. Gli altri, da Bossi a Vattani, sono venuti dopo, apparentemente al seguito dell’intifada avviata da Martino. In secondo luogo perché, dal punto di vista della ritrattistica giornalistica, direi che lo scontro fra questi due opposti temperamenti meridionali sembra riportarci a un colorito duello ambientato fra Napoli e la Sicilia nel romanzesco regno borbonico. Da un lato un napoletano carnoso, estroverso, freddo, dai riflessi felini velocissimi e inattesi rispetto alla sua complessione fisica; dall’altro un siciliano tendenzialmente introverso, di fondo pessimistico, critico, con l’aria di uno sempre un po’ lontano da chi gli sta rivolgendo la parola. Da una parte eloquio fluido, incalzante, martellante, pragmatico; dall’altra una parlata rallentata dalla riflessione, dal dubbio permanente, costellata, come nel caso dell’Airbus e dell’invio di soldati italiani in Afghanistan, di troppi «se», «però», «purtroppo», «vedremo», «faremo del nostro meglio», «le incognite sono numerose». L’Europa? Per Renato un must assoluto, un ideale dato per scontato, una puntata ovvia sul futuro. Per Antonio un banco di prova quasi edipico, privato, revisionistico nei confronti dell’europeismo fondativo e per lui forse troppo schematico del padre Gaetano: più che una certezza scontata un dilemma, sia pure risolvibile potenzialmente per il meglio; un rovello anche monetaristico, per un Chicago boy come lui, più che un’utopia gridata e militante di genere spinelliano. Fin dai tempi del suo dicastero diplomatico, assegnatogli nel primo governo Berlusconi, quando già dubitava sull’efficacia dell’euro e poneva il veto italiano alla candidatura comunitaria della nuova Slovenia, fin d’allora per Martino l’Europa non era l’inno alla gioia di Beethoven ma una dissonante musica dodecafonica: dodici Nazioni Stato, imbrigliate nella moneta unica, e proprio perciò ormai mature per esibirsi ciascuna con dodici contrastanti sottotoni nella sinfonia seriale dell’Unione Europea. «I modi e le forme di realizzazione dell’ideale europeo sono di pertinenza del mondo della ragione, e non solo possono ma devono essere oggetto di discussione razionale. L’ideale ha tutto da guadagnare da un vigoroso e franco confronto di opinioni». L’antifona è leggibile: non può esservi esitazione su chi fra i due Martino, il beethoveniano Gaetano o il dodecafonico Antonio, possa aver vergato tali parole «vigorose e franche» sul ”Corriere della Sera” mentre montava e incalzava la crisi Ruggiero. Crisi che Martino, che è osso durissimo, ha continuato ad alimentare con lettere pubbliche come queste, oppure semipubbliche come quella scritta a Berlusconi in cui elevava un protesta contro il collega degli Esteri che aveva appena dichiarato in Parlamento: «Spedire i nostri soldati in Afghanistan sarebbe una missione troppo pericolosa». Ma qui non si capiva più chi fosse il ”pacifista” e chi il ”guerrafondaio”. Un giorno Ruggiero evocava i rischi di un’eventuale presenza militare italiana a Kabul; il giorno dopo Martino ribatteva che tale presenza era «purtroppo» necessaria ma che non spettava agli Esteri bensì alla Difesa stabilire la quota dei contingenti da inviare; il giorno successivo Ruggiero annunciava l’imminente invio di carabinieri nell’ex capitale dei talebani; il quarto giorno Martino, col suo sarcasmo sulfureo, gli rispondeva: «Forse il ministro si riferisce ai carabinieri di stanza alla Farnesina». La polemica non piu sorda, ormai eloquentissima e sonora, si prolungava sui maggiori organi d’informazione. Alle lettere e dichiarazioni di Martino al ”Corriere” replicava Ruggiero sulla ”Stampa” affermando che «certi colleghi di governo» si stavano comportando con lui come se fosse «un ministro dell’opposizione». Interveniva nello scontro, invelenito ed esportato oltreconfine, la grande stampa straniera, col ”Financial Times” che, prendendo le difese della Farnesina, ironicamente definiva ”Dry Martino” il titolare della Difesa. Mentre Ruggiero, alzando il tiro e strizzando l’occhio all’Ulivo, faceva sapere all’Italia e all’Europa di avere dietro di sé «la grande e buona compagnia di tutto il Parlamento», il giornale della City si domandava: «Per quanto ancora il responsabile della diplomazia romana potrà resistere dopo la battaglia persa sull’Airbus A400M e gli attacchi congiunti di Antonio Martino e Umberto Bossi?». Era già il 20 dicembre 2001. Pochi giorni dopo, all’inizio del 2002, Ruggiero rilanciava costringendo Berlusconi, preso fra troppi fuochi, a invitarlo a scoprire le carte sul tavolo. Le carte di Ruggiero, nel vortice dei rilanci intrecciati, si rivelavano per la prima volta inferiori a quelle dei rivali. Sapeva che, nonostante l’età, non sarebbe rimasto comunque disoccupato. D’altronde Martino aveva vinto un’importante battaglia, ma non la guerra, poiché assai difficilmente potrà farsi trasferire dal suo attuale ministero a quello degli Esteri già ricoperto nel 1994. Berlusconi ha in mente tutt’altre strategie. Intanto, l’Italia dà l’impressione di aggiungere un proprio singolare viaggio nell’ignoto a quello dell’Europa e del mondo nell’età dell’euro e del geoterrorismo planetario. Enzo Bettiza