Il Manifesto 30/03/2006, pag.1-12 Stefano Benni, 30 marzo 2006
Questo è un ultimatum. Il Manifesto 30 Marzo 2006. E’ vero, sono le elezioni col dibattito più noioso e becero dal dopoguerra
Questo è un ultimatum. Il Manifesto 30 Marzo 2006. E’ vero, sono le elezioni col dibattito più noioso e becero dal dopoguerra. Non solo per colpa di un premier gonfio di veleno che odia ormai l’ottanta per cento dei cittadini che vorrebbe governare. Non solo per la vergognosa subalternità dei suoi alleati. Ma anche per una sinistra pietrificata nello show mediatico "scontro tra i poli", più preoccupata a rispondere alle perfidie dei leaderini avversi che al bisogno di chiarezza degli elettori. Sicuramente il centro-destra stramerita di perdere, probabilmente i leader di sinistra non meritano del tutto di vincere. Ma meritano di vincere i cittadini stanchi di questo governo. Soprattutto quelli che hanno avuto qualche piccolo o grande impegno, o battaglia, parola, atto di pazienza o di ribellione contro il berlusconismo. Tra questi c’è il maledetto manifesto, ancora alle prese con problemi finanziari, squilibri giornalistici e un fatalismo da dies irae che vorrei scaramantico ma forse è reale. Insomma, lettori, se ho capito bene stavolta il giornale rischia di chiudere davvero e non in tempi lunghi. Abbonarsi è più prezioso che mai. Ve lo dico in altri quattro modi, in stile manifesto. I riflessi della politica petrolifera di Chavez e il nuovo ribaltamento degli equilibri in Ucraina comportano un assetto globale dell’asse nord-sud-est-ovest che rende problematica al momento la distribuzione del manifesto a Reggio Emilia. Eravamo stati facili profeti nel dire che la vittoria di Hamas e la situazione del Corno d’Africa avrebbero colto impreparato l’occidente, così come l’esplosiva situazione dei clandestini in Usa ha avuto come riflesso una lieve flessione del manifesto in Sardegna. Ma se la sinistra italiana si allinea alle posizioni Nato, non possiamo non vedere come in Bielorussia e soprattutto in Cina la nuova edge-frontier economica che arricchisce le coste ma lascia povero l’interno, insieme al ruolo ormai centrale del mercato della coca e al relativo istituzionalizzarsi dei movimenti di guerriglia separatista fa sì che la crisi dei gasdotti e il contemporaneo boom tecnologico dell’India pongano all’internazionalismo una domanda irrinunciabile: quando ci pagano gli stipendi? Stile Loris Campetti Negli anni Sessanta a Torino la creatività operaia era già così sviluppata da permettere alle lotte di essere non soltanto alternative, ma propositive, anche se il sindacato fu colto impreparato e ignorò il potenziale rivoluzionario in atto. Ne fa esempio la testimonianza ascoltata ieri al centro Guevara di Collegno, dove l’operaio Perinotto ha raccontato un episodio della lotta alla Fiat. Davanti ai cancelli venivano distribuiti volantini realizzati con un ciclostile costruito esclusivamente con pezzi rubati in fabbrica dalla manualità operaia, e stampato con inchiostro ottenuto da spremitura di biro di caporeparto. Un noto esponente della nomenklatura comunista, passando davanti alla fabbrica su una lussuosa vespa, si fermò, lesse il volantino e disse: «Posso concordare con il contenuto, ma la veste grafica è misera». Gli operai lo contestarono e gli dipinsero la vespa con graffiti di lotta. Per fortuna tutto si risolse davanti a un risotto con salsiccia cucinato dentro a un paiolo fatto o mano sul posto riciclando cofani di auto di dirigente. Ora la situazione è diversa: la veste grafica dei giornali della sinistra è spesso lussuosa, ma manca la salsiccia preziosa del contenuto. E soprattutto, se non c’è il risotto, come riusciremo a contenere le tensioni interne? Stile pagina spettacoli In questo film-crisi sospeso tra l’iconografia surffulleriana della West Coast e il delirio gotico-trash di Lynch c’è una linea intermedia che sfiora l’ironia nazional- morettiana e il ricordo di Carmine Gallone per approdare a un erotismo filmico che coniuga l’onnipotenza plastica dei cartoon alla Tex Avery alla flessibilità silenziosa di Celentano e al non-cinema in quanto de-significazione de-godardiana in cui la violenza del pulp tarantiniano e, diciamo così, liofilizzata in puro lancinante frame-proiettile subliminale che ci obbliga a posare per un attimo il nostro sacchetto di popcorn e rivisitare la lezione di Kaurismaki, Boldi e Carl Barks in un sofferto disallineamento tra effetto speciale e fantasma mediatizzato, inteso come bagliore dionisiaco dello schermo. Alla fine di tutto, però, resta la frase che ci ha rivolto all’entrata del cinema un giovane spettatore, strepitoso mix di neorealismo alla Bombolo con derive glamour pasolin-fassbinderiane condensate nella maglietta «Totti ritorna», e cioè: «Io ar cinema nun ce vado perché non c’ho ’na lira». Stile Valentino Parlato La macroeconomia e la microeconomia, hanno come punto di contatto, diceva il mio amico Guido Carli, un fondamentale interesse per il danaro. E’ troppo chiedere alla sinistra di coniugare la parola benessere in termini non solo ideologici e utopici ma anche di realismo e concretezza degli scambi di mercato? Come diceva il mio amico Epaminonda, un soldato digiuno da due giorni combatte con più rabbia, un soldato digiuno da una settimana non combatte. Il nostro piccolo giornale combatte da anni e come disse il mio amico Gheddafi a Lapo Elkann, sarai anche ricco ma sei un gran fighetto. Non dobbiamo essere ricchi ma neanche fighetti. Abboniamoci al manifesto, perché come disse il mio amico Ernesto, quello del piano di sotto a cui hanno svaligiato il garage, si apprezza una cosa soprattutto quando ci manca. Per finire. Non è facile ironizzare su un problema grave come la mancanza di fondi del manifesto, ma mi è stato chiesto, e non so quanto sarebbe efficace un comizio lamentoso. Sono però assolutamente serio nel dire che non posso immaginare un futuro senza questo amato-odiato giornale, sia che si vinca, sia che si pareggi, sia che... Sento dire in giro che è triste poter scegliere una volta ogni cinque anni. Che il voto ha un valore esagerato, in una democrazia guasta e cinquantunista che disprezza e degrada il termine «opposizione» a puro fastidio e ostacolo. Non sono d’accordo: è vero, votare è una semplificazione e una riduzione della complessità e dei desideri del paese. Ma scegliere si può sempre, ogni giorno. E scegliere di abbonarsi al manifesto è un piccolo voto. Votiamo due volte, questo mese. Stefano Benni