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 2006  marzo 18 Sabato calendario

Antonello scienziato dell´anima. La Repubblica 18 marzo 2006. Un giorno d´estate (racconta Giorgio Vasari), Jan van Eyck pose uno dei suoi quadri sotto la luce del sole: ma, la mattina seguente, scoprì che la violenza luminosa aveva arso i colori, e spaccato in più punti la tavola

Antonello scienziato dell´anima. La Repubblica 18 marzo 2006. Un giorno d´estate (racconta Giorgio Vasari), Jan van Eyck pose uno dei suoi quadri sotto la luce del sole: ma, la mattina seguente, scoprì che la violenza luminosa aveva arso i colori, e spaccato in più punti la tavola. Jan van Eyck si infuriò. Detestava la pittura a tempera. Non era soltanto un pittore, ma anche un alchimista; e subito si rifugiò nel suo laboratorio, tra ampolle, alambicchi, vasi, vecchie pergamene, gufi impagliati, camini accesi, ragni e moltissima polvere. Mescolando l´olio di lino, quello di cocco e ingredienti misteriosissimi, voleva produrre una vernice capace di seccare all´ombra, senza perdere le sfumature, le liquidità e le trasparenze dei colori. La settimana dopo, nel laboratorio accadde il miracolo: come nel Faust, la nigredo diventò albedo; Jan van Eyck non aveva trovato la pietra filosofale, ma qualcosa di più prezioso: la pittura ad olio. Cercò di tenere nascosta la scoperta: la comunicò soltanto a due amici, Rogier van der Weyden e Hans Memling. Eppure la fama si diffuse: principi e pittori si chiesero cosa avesse inventato il grande pittore-alchimista; e nei Paesi Bassi, in Francia, in Germania, in Italia, nelle corti, nei mercati e negli studi si parlava soltanto dell´invenzione di van Eyck. La voce giunse fino a Messina. A Messina viveva un giovanissimo artista, Antonello d´Antonio, che da pochi mesi aveva cominciato a giocare con i pennelli e i colori, senza immaginare che avrebbe dedicato loro la propria esistenza. Il 10 marzo del 1440, salì sul brigantino del nonno, che portava arance e forti vini siciliani in Provenza. Il viaggio fu breve: dopo dieci giorni, Antonello giunse a Marsiglia. Seguì il corso del Rodano, fin nel cuore della Francia, e poi piegò verso Nord-Est, raggiungendo sei mesi dopo Bruges, dove abitava Jan van Eyck. Antonello non si era mai divertito tanto. Aveva mangiato pane secco, salsicce, polli rubati nelle aie, pesci afferrati nei ruscelli: aveva dormito all´addiaccio, all´ombra di querce immense, o sui banchi delle chiese. Giurò che non avrebbe mai abbandonato questa vita: dipingere è un viaggio incessante, che percorre i mondi possibili ed impossibili. A Bruges, Antonello trovò subito la casa di Jan van Eyck: tutti la conoscevano; era il centro della terra, verso il quale guardavano duchi, re ed imperatori. Affamato e coperto di stracci, Antonello bussò alla porta: gli venne ad aprire il vecchio pittore, che portava in capo un turbante rosso. Il giovane siciliano risvegliò in lui una specie di affetto materno. Quando Van Eyck seppe che anche il giovane dipingeva, lo portò subito davanti al suo ultimo quadro, La testa di Cristo come re dei re, dove Antonello lesse JHESUS VIA JHESUS VERITAS JHESUS VITA. Poi lo accompagnò in una camera piccolissima all´ultimo piano, con vetri scuri che celavano la luce, e lo invitò, insieme a Rogier van der Weyden e a Hans Memling, a una sontuosa cena fiamminga. Dopo quattro giorni di convivenza, Jan van Eyck cominciò ad insegnare a Antonello il segreto dei segreti: la pittura ad olio. Era convinto che il ragazzo siciliano avrebbe compreso la sua scoperta, che dava una nuova leggerezza al pennello, molto meglio dei suoi conterranei. Quando nel luglio 1441 Jan van Eyck morì, Antonello era già ripartito per l´Italia. Qualche mese dopo raggiunse a piedi Venezia, dove vendette il suo segreto ad altissimo prezzo, e cominciò a dipingere "alla maniera di Fiandra". * * * Non posso nascondere ai lettori di Repubblica che la storia, raccontata da Giorgio Vasari (e da altri), è falsa, tranne in qualche particolare. Antonello non incontrò mai Jan van Eyck, perché quando questi morì, aveva undici anni e giocava ai quattro cantoni con i bambini del quartiere. La pittura ad olio esisteva già da quasi due secoli, sebbene con Van Eyck raggiungesse una trasparenza e uno splendore, che non aveva mai conosciuto. La storia del "gusto di Fiandra" ha come protagonisti due re di Napoli: Renato d´Angiò e Alfonso il Magnanimo d´Aragona. Non è una vicenda di tecniche pittoriche. Ma un grande affresco romanzesco, con battaglie, traversate del mare, re buoni e malvagi, eroi, traditori, amori, odi, vittime, sconfitte, ferocia, avarizie sordide, spietate avidità, torture, carceri, riscatti, misteri. Soltanto un genio come Alexandre Dumas potrebbe raccontare questa storia. Sappiamo quasi tutto su Renato d´Angiò, re di Sicilia, duca d´Angiò, duca di Lorena, conte di Provenza, di Guisa e di moltissimi "autres lieux": persino il nome della balia, Tiphaine La Magine. Nacque il 16 gennaio 1409, alle tre di notte. Era bello, alto, forte: "il fiore della cavalleria": amava la pittura, la letteratura, la musica, le donne e i tornei. Ma quando nel 1431, a ventidue anni, affrontò in battaglia il Duca di Borgogna, si comportò come gli stolidi cavalieri crociati, che, nella battaglia di Hattin, furono sconfitti dal Saladino e persero Gerusalemme. Senza ascoltare consigli di prudenza, partì all´assalto: la sera, duemila dei suoi cavalieri e soldati giacevano morti al suolo. Il duca di Borgogna lo rinchiuse due volte nella torre di Digione, chiedendo in pegno anche i figli, il maggiore dei quali aveva cinque anni. Soltanto nel febbraio 1438 lo lasciò libero, a patto di ricevere l´enorme riscatto di 400.000 fiorini. Nel 1435, Giovanni II d´Angiò aveva designato Renato come erede del regno di Napoli. Tre anni dopo, Renato poté finalmente lasciare Genova con quattro galee. Mentre solcava il Tirreno, aveva a bordo i suoi amatissimi pittori e miniaturisti, Barthélemy d´Eyck e Pierre du Bijlant. La sua nave si lasciava dietro una scia odorosa di olii di lino e di cocco, di colori sgargianti, di piccolissimi pennelli e di discussioni d´arte. Probabilmente Renato preferiva di gran lunga la gloria di portare in Italia "il gusto per le cose di Fiandra" al potere di sovrano. Non aveva perduto il vizio di considerare la guerra come un torneo cavalleresco. Quando il suo esercito, più forte, incontrò le truppe di Alfonso d´Aragona, gli inviò araldi e trombettieri con il guanto di sfida. Alfonso non aveva nessuna voglia di venire sconfitto, e prese la fuga. In quel momento, per amore della cavalleria, Renato d´Angiò perse il Regno di Napoli. Non aveva denaro per pagare le truppe mercenarie, e si ritirò a Napoli. Il 2 giugno 1442 Alfonso penetrò nella città attraverso i cunicoli dell´acquedotto: stratagemma che, da vero umanista, amava, sopratutto perché l´aveva letto nelle Guerre gotiche di Procopio. Con i pochi cavalieri che gli erano rimasti fedeli, Renato lasciò la città. Ma non si addolorò troppo. Se saliva su una galea genovese, sbarcando presso Pisa, avrebbe potuto raggiungere Firenze, chiacchierando di politica col papa. Intanto, avrebbe visto ciò che gli interessava sopra ogni cosa: i nuovi pittori italiani: Masaccio, Beato Angelico e gli altri, che voleva far conoscere in Provenza. Anche l´arrogantissimo e prepotente Alfonso d´Aragona, detto il Magnanimo, amava la pittura di Fiandra. Mandò a Bruges uno dei suoi pittori, perché imparasse i segreti dell´arte: ingiunse ad un altro, Colantonio, di copiare alcuni Van Eyck: invitò artisti valenzani e catalani, il Laurana, Niccolò dell´Arca, Pisanello, il Gagini. Chiedeva, esigeva, pretendeva che gli artisti di tutte le scuole e paesi scendessero a Napoli, perché la sua capitale diventasse la più bella città della terra. Voleva che Donatello, il quale aveva appena finito la statua equestre del Gattamelata, discendesse nel suo regno. Donatello rifiutò. Ma che importava? Alfonso comprava quadri dappertutto: tre Van Eyck, tra cui il famosissimo Trittico Lomellino, Filippo Lippi (cedutogli da Cosimo de´ Medici); mentre trasformava in arazzi La Passione di Rogier Van der Weyden. Il momento più bello, la pietra bianca della sua vita, fu un giorno del luglio 1457, quando Federico da Montefeltro giunse a Napoli; e Alfonso parlò con lui del nuovo, splendente astro della pittura italiana: Piero della Francesca. [* * *] Mentre queste cose accadevano rumorosamente sulla scena del mondo, Antonello d´Antonio cresceva in silenzio a Messina. Secondo il Vasari, era nato nel 1430 da una famiglia quasi agiata. Il nonno possedeva una brigantino: il padre lavorava come marmoraro. Quando Antonello fu sui vent´anni, andò a Napoli, nella bottega di Colantonio, pittore di Alfonso d´Aragona. Appena tornato a Messina, aprì una bottega, comprò due case, dipinse gonfaloni (tavole a due facce) per confraternite, ritratti, Madonne, Ecce Homo, quadri d´altare, piccoli ritratti: sposò Giovanna Cumminella e andò a Noto, Caltagirone e Palazzolo Acreide. Veniva pagato talvolta con splendide onze d´oro, talvolta con più modeste salme di vino, d´orzo e di frumento. Ho tralasciato due episodi fondamentali. Il primo avvenne a Napoli, quando lavorava nella bottega di Colantonio: con uno dei suoi gesti grandiosi, Alfonso il Magnanimo aprì ad Antonello le camere segrete dove erano esposti i Van Eyck. Fu il primo incontro di Antonello con il maggiore pittore del quindicesimo secolo. Egli ammirò subito quel mondo infinitamente piccolo di erbe grasse, sassi spugnosi, foglie d´alberi e di arbusti, dipinte una per una, che sembravano crepitare di una vita più intensa della vegetazione terrena. Antonello rimase a lungo nella stanza di Alfonso. Cos´era quel mondo misterioso, che all´improvviso conosceva? Vi scopriva le stesse cose incontrate nella vita quotidiana: cappelli, turbanti, specchi, finestre aperte, clavicembali, lampadari, gemme preziose. Allora quello di Van Eyck era soltanto il nostro mondo rimpiccolito? Ma questa spiegazione non lo soddisfaceva. Si chiedeva se non fosse, invece, uno spazio sacro, un paradiso sconosciuto, nel quale solo Van Eyck era riuscito a penetrare. Antonello guardava, arretrava, guardava ancora, s´incantava davanti a un turbante rosso, o a un castello che si perdeva in una lontananza infinita. Non riuscì mai a capire del tutto. Nessuno, forse, comprese van Eyck, prima di un altro pittore vissuto due secoli più tardi, a Delft, non molto lontano da Bruges. Si chiamava Johannes Vermeer. Van Eyck aveva varcato i confini dello spazio terreno: voleva sapere cosa esisteva oltre i limiti della realtà. Non era stato un lungo viaggio. Dopo pochi centimetri, proprio dopo l´orlo, aveva scoperto una realtà apparentemente identica alla nostra. Sembrava un doppio. Eppure tutto era completamente diverso: l´aria, il peso, il colore, la fluidità, la quiete, il silenzio - un fascino che nessuna cosa terrena suscitava. Allora Van Eyck decise che avrebbe condotto una vita duplice. Quando abitava tra gli uomini, si sarebbe comportato come un onorato gentiluomo fiammingo, abituato a discorrere con i potenti della terra. Ma, nel suo studio, sarebbe sempre passato di là. Avrebbe rappresentato solo l´altro mondo, tanto più sottile, lieve e fluido del nostro, cercando di cristallizzarlo e di rivelarcelo. Il secondo episodio è misterioso; e resta aperto alle congetture degli studiosi e di tutti coloro che, a partire da oggi, visiteranno la meravigliosa mostra di quasi tutti i quadri di Antonello, esposti per la prima volta alle Scuderie del Quirinale (catalogo a cura di Mauro Lucco e Giovanni Federico Villa, Silvana editrice, euro 29,50). Il 15 gennaio 1460, il padre di Antonello, che non possedeva più la nave di famiglia, noleggiò il brigantino Santa Maria delle Scale con sei uomini a bordo, per raggiungere Amantea sulla costa tirrena della Calabria (presso l´odierna Lamezia Terme). Lì la nave doveva attendere per otto giorni magister Antonellus, con la moglie, il figlio e il fratello (entrambi pittori), la sorella, il suocero, altri figli, la gente di servizio, la roba e gli arnesi per dipingere. Poi, affollati sulla Santa Maria delle Scale, sarebbero tornati tutti insieme a Messina. Dov´era dunque andata quella pittoresca bottega-famiglia, con servi e lenzuola e camicie e vecchi mantelli e i pennelli e i colori e il preziosissimo olio? Credo che Antonello e i suoi volessero sia dipingere sia conoscere le opere dei nuovi pittori italiani. Probabilmente, arrivarono a Roma, dove pochi anni prima avevano lavorato Masaccio e il Beato Angelico: mentre nel 1459 Piero della Francesca affrescava «la camera» di Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II. Non so se Piero e Antonello si incontrassero; e il pittore più anziano e famoso insegnasse qualcosa al giovane pittore siciliano. Certo, Antonello si innamorò di Piero della Francesca, il secondo «faro» della sua vita, come dimostrò sopratutto negli anni veneziani. [* * *] I primi dipinti di Antonello (o almeno quelli che giunsero fino a noi) sono Annunciazioni. Quasi tutte le Vergini leggono, o tengono in mano un libro: ciò che non accade mai nei Vangeli. Ma i pittori di allora sfogliavano volentieri i Vangeli e gli Atti apocrifi, che in parte risalgono ai primi secoli del cristianesimo: il cosiddetto Protovangelo di Giacomo, e il Vangelo sulla nascita di Maria. Nei Vangeli apocrifi, i pittori apprendevano che nell´infanzia Maria aveva trascorso molti anni nel Tempio ebraico di Gerusalemme, dove «perseverava nella lettura e nelle preghiere», tanto che «nessuno era più dotto di lei nella conoscenza e nella meditazione della Legge». Tornata a casa, Maria era stata incaricata di tessere il velo di porpora del Tempio. All´improvviso, mentre tesseva, le apparve l´Angelo Gabriele. Un pittore cristiano non avrebbe mai potuto rappresentare la madre di Dio nell´odiato Tempio ebraico. Così, sostituì a quelle cerimonie e letture un semplice libro: certo l´Antico Testamento, dove Maria poteva intravedere, per mezzo dell´esegesi allegorica, il proprio destino: l´incarnazione, la nascita di Gesù, la fuga in Egitto, la predicazione, la Croce, la morte. Per la prima volta, il libro di Maria apparve nell´Oriente bizantino: poi, alla fine del XIII secolo, si diffuse in Occidente, nelle pitture di Duccio da Buoninsegna e di Pietro Cavallini. Così Maria diventò per sempre la Sedes Sapientiae: quasi il cuore della teologia cristiana. Ciò che colpisce, sopratutto nelle due prime Annunciazioni di Como e di Venezia (quadri di discussa attribuzione), è l´espressione di Maria. Ha il viso intenso, affilatissimo, macerato: lo sguardo quasi sospettoso e diffidente. Nessuna letizia le sfiora il viso, nemmeno da lontano. La lettura della Bibbia l´ha sconvolta. A Bisanzio, tra il quarto e il quinto secolo, Giovanni Crisostomo aveva scritto: «Da principio la Vergine non si abbandonò, non accolse la parola dell´Angelo: ma si turbò, domandando cosa significava il saluto». In molte pitture bizantine, la Vergine volge il palmo aperto contro l´Angelo, in segno di rifiuto. Anche Antonello comprese che, almeno all´inizio, la Vergine aveva respinto l´annuncio dell´Angelo. Forse non si sentiva degna della grazia: forse vide troppo sangue ed orrore sulla sua strada; un figlio percosso, flagellato, morto sulla croce. Come Gesù nel Getsemani, dubitò che il piano di salvezza, preparato da Dio, fosse giusto o possibile; ed ombra e inquietudine la penetrarono in cuore. Più tardi, nelle meravigliose Annunciate di Monaco e di Palermo, ogni dubbio scompare. L´ombra si allontana. La prima Vergine (quella di Monaco), è la serva del Signore, di cui parla Luca: l´umilissima creatura che, quasi senza comprendere, incrocia le braccia ed apre appena la bocca; e scende in basso, sempre più in basso, nell´oscura profondità che vive sotto il mondo umano. L´Annunciata di Palermo non ha sentimenti, perché vive in un luogo dove i sentimenti umani non giungono. Conosce la quiete perfetta. Con piena coscienza, accetta la sorte annunciata nella Bibbia. Ci guarda dall´alto come la placida e silenziosa Luna: la Luna che vive soltanto di vita riflessa, accogliendo i raggi ardenti ed umidissimi del Cristo-Sole. [* * * ] Con i suoi quadrettini, che di rado superano i trenta centimetri, Antonello è, forse, il più grande ritrattista del Quattrocento italiano. Non possedeva soltanto un sottile intuito psicologico, ma una vera e propria scienza dell´anima e del corpo, come Tolstoj e Proust. Quando vedo il Ritratto d´uomo di Cefalù, ho l´impressione di scorgere Antonello mentre dipinge: con quegli sguardi duri, intensi, penetrantissimi, precisissimi, implacabili (attribuiti a quasi tutte le sue figure, persino ai santi), che fissano in volto il modello. Antonello guarda a lungo, a lungo: gli occhi, l´inclinazione degli occhi, il sorriso, la barba, il mento, le orecchie, tutti i minimi segni del viso: li collega tra loro; e di colpo penetra nel profondo, scoprendo i pensieri e i sentimenti nascosti. Il Signore di Cefalù è un principe, oppure un grandissimo commerciante. Mentre ci guarda (non siamo noi a guardare i quadri di Antonello), ci lascia capire di possedere una immensa conoscenza della vita e della storia umana, per quanto esse siano complicate e labirintiche. Niente gli sfugge, nei sentimenti degli altri: ma egli non rivela mai la fonte della propria saggezza, che deve restare misteriosa. Solo così, circondandosi di cautele e segreti, può sopraffare gli altri uomini. Quanto al mondo celeste (nel quale Antonello credeva), non suscita in lui né attenzione né interesse. Eppure, il signore di Cefalù non possiede una fiducia assoluta nella propria saggezza: la considera un´arte limitata. Sopra la saggezza, sta l´ironia: l´ironia assoluta, che si prende gioco della vita, della storia, della religione, di lui stesso e forse di Dio. Il Ritratto del giovane al Metropolitan è la figura opposta a quella del Signore di Cefalù. Possiede ciò che Leopardi chiamava «il fior di gioventù» o «il fior degli anni miei». Non ha nemmeno diciotto anni: è biondo e delicato; e la sua fioritura non ha ancora raggiunto il culmine. Il mondo gli piace; e va incontro alla vita sorridendole, corteggiandola, e trovando dovunque bellezza e gioia. E´ felice (o quasi felice); e come tutti gli uomini felici, emana fascino, suscita simpatia e tenerezza e, per un momento brevissimo, rende felici coloro che incontra. [* * *] Mentre dipingeva questi ritratti virili, Antonello compose alcuni dei più terribili e commoventi Ecce homo. Credeva in Dio: eppure aguzzava tutti i suoi coltelli e pugnali per ferire la figura di Cristo. Qualche volta incrudeliva, perché quasi sempre i suoi Ecce homo hanno perduto non solo la qualità divina, ma quella umana. Gesù è una sola pozza di lacrime e sangue: una piaga aperta, che si disfa e si allarga; e una volta, sembra persino toccato dall´abiezione e dall´idiozia. Il Cristo alla colonna nasce da una genialissima trasposizione iconografica. Gesù non sta, come sembra, nel pretorio, legato a una colonna, e vilipeso dai soldati romani, ma è già sulla croce. Ricordiamo i Vangeli, specialmente quello di Matteo. Nel podere del Getsemani, Gesù aveva pregato Dio: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice». Con la testa al suolo e i grumi di sudore-sangue che scendevano a terra, Gesù aveva pensato che forse esisteva un´altra strada di salvezza, che non passava attraverso la sua crocefissione. Forse, c´era un´altra possibilità, che solo Dio conosceva. Ma il Padre non esaudì la preghiera del Figlio. Non disse una sola parola: né inviò angeli per consolarlo. Allora Gesù abbassò il capo accettando in silenzio la condanna che il Padre (e lui stesso) gli avevano inferto. Mentre Gesù stava appeso sulla croce, si fece buio su tutta la terra. Tre ore più tardi, Gesù gridò a voce altissima - la voce sovrumana di un Dio-: «Mio Dio, Mio Dio, perché mi hai abbandonato?» Per la prima volta, Gesù non chiamò Dio col nome abituale di Padre. Comprese che Dio l´aveva lasciato: solo, flagellato, senza vesti, senza parole, senza conforto, con la grottesca corona di spine. Dio e lui non erano più una cosa sola. Adesso, sono separati. Dio sta nell´alto dei cieli; e Gesù è soltanto un giusto che soffre, e viene dimenticato. Questa condizione spirituale spiega il Cristo alle colonne: gli occhi guardano disperatamente il cielo buio e muto, la bocca è semiaperta, le labbra pallide, la lingua si intravede appena, le lacrime spiccano sul volto, le gocce di sangue scendono lentamente sul corpo. La Pietà del Prado continua la storia annunciata dal Cristo alla colonna. Il viso di Gesù è identico. Cristo è morto abbandonato sulla Croce: qualcuno l´ha deposto, gli ha tolto la corona di spine, e l´ha portato all´aperto. Un piccolissimo angelo - uno dei minimi - piange e gli accarezza il braccio destro. Gli occhi chiusi di Gesù non vedono più il cielo, sebbene il viso sia teso verso l´alto: il volto è terreo; da una ferita nel costato (di cui parla solo il Vangelo di Giovanni) cola sangue e forse acqua. [* * *] Nell´agosto 1474, a quarantaquattro anni, Antonello partì su una nave insieme al figlio pittore, diretto a Venezia, dove rimase quasi due anni. A Venezia, Antonello raggiunse il culmine della fama. Era considerato un pittore grandissimo e «chiarissimo»: corteggiato, ammirato, pagato non con salme di vino e d´orzo, ma con eccellenti monete d´oro. Qualcuno sostiene che soffriva già della malattia che, qualche anno dopo, lo porterà alla tomba. Se fosse vero, mai malato lavorò così febbrilmente, dipingendo decine di quadri, influenzando Giovanni Bellini e altri pittori veneziani, e passando dalle piccole tavolette all´immensa pala di san Cassiano, madre di molte Sacre Conversazioni. A Venezia, Antonello dimostrò quanto vasto fosse il suo genio. Da un lato, vi compose alcune tra le opere più religiosamente drammatiche del suo tempo, come il Cristo alla colonna e la Pietà del Prado. Non abbandonò mai le proprie origini fiamminghe. D´altro lato, rivelò quanto fosse profonda la sua devozione a Piero della Francesca. Quando guardava il mondo, vedeva, come Piero, una moltitudine di colonne: qualcuna in piedi, qualcuna a terra. Le colonne di marmo non soffrono né ridono né piangono né salgono sulla Croce o discendono dalla Croce. Anche Antonello diventò immobile come una colonna: non gli importavano più le proprie emozioni, né i sentimenti delle sue figure. Il cuore, l´anima, la religione, gli erano diventati quasi indifferenti. Il mondo era soltanto una combinazione di linee, masse, volumi, colori, ombre, rapporti. Il San Sebastiano è una meravigliosa statua ellenistica. La carne del santo è di pietra; le gambe si appoggiano con grazia squisita sul terreno, spostandosi lentamente verso destra: le frecce, infilate nella carne di marmo, sono preziosi ornamenti, che potremmo estrarre e deporre su una consolle. San Sebastiano non soffre, ma guarda verso il cielo con vaga melanconia e nostalgia. Anche se soffre, non importa a nessuno. Sul fondo, qualcuno ha innalzato palazzi, archi e torri, che potrebbero scomparire da un momento all´altro, come scene di teatro. Quattro donne chiaccherano, appoggiandosi a bellissimi tappeti orientali: forse qualcuna di loro guarda distrattamente la schiena di Sebastiano. Disteso per terra, un uomo dorme: mentre un gentiluomo e un armigero discorrono non sappiamo di cosa, forse di letteratura classica o di politica internazionale o di Donatello, o della Camera degli Sposi, che Mantegna aveva ultimato da poco, o di Antonello da Messina che sta per ritornare in Sicilia. Qui incontriamo soltanto l´invisibile e inafferrabile dea della Forma, indifferente a tutti gli eventi e le passioni, perché ama soltanto la quiete armoniosa dell´universo. Ormai era tempo, per Antonello, di tornare a Messina, dove giunse nell´agosto o settembre 1476. Aveva fretta: un matrimonio l´attendeva: doveva pagare l´ultima rata della dote per la figlia Caterinella. Il genero era un giovane «discreto», cioè pieno di senno e discernimento. Antonello dipinse altri «gonfaloni»: incassò tre salme d´orzo e tre di frumento. Il 14 febbraio 1479 fece testamento. Qualche giorno dopo, morì. Suppongo in silenzio e rapidamente, senza proteste né lamenti né lacrime, come fanno i grandi pittori, e gli uomini «discreti». Non so se ebbe tempo di ricordare la giovinezza: ma se gli tornarono alla memoria i tempi di Napoli e di Colantonio, pensò certamente che la dea della pittura gli aveva offerto in dono molto più di quanto egli avesse mai osato sperare. Pietro Citati