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 2002  gennaio 04 Venerdì calendario

La corrente pittorica del televisionismo, la Repubblica, venerdì, 4 gennaio 2002 Brescia. C’è la pittura realista, c’è la pittura astratta, adesso c’è anche la pittura telegenica

La corrente pittorica del televisionismo, la Repubblica, venerdì, 4 gennaio 2002 Brescia. C’è la pittura realista, c’è la pittura astratta, adesso c’è anche la pittura telegenica. «Uno dei nostri artisti, non dico quale perché devo venderlo, usa solo colori che vengono bene in tivù». Sorpresi? Ma anche Franco Boni, il Re di quadri, il televenditore d’arte più celebre d’Italia, in tivù s’adegua. Diventa aggressivo, istrione, prolisso, identico alla parodia che gli fece Corrado Guzzanti nell’’Ottavo nano”. Fuori scena, invece, è un cordiale cinquantenne romano, ironico, garbato conversatore. Non ripete la stessa frase tre volte di seguito, dimentica il fastidioso tic vocale, l’aeeh che è il suo marchio di fabbrica. Dopo un’ora di conversazione viene il sospetto che abbia una certa cultura artistica. «Sono antiquario, figlio e nipote di antiquari, da bimbo stavo sulle ginocchia di Guttuso». Ed ora vende quadri a Telemarket? «Ogni antiquario vende quadri, io lo faccio con un mezzo più popolare». Ma quando va in scena non è un antiquario, è un... «...imbonitore? Lo dica, se lo pensa, lo dicono in tanti. Ma tanti mi ringraziano perché grazie a me hanno scoperto la pittura». Ma lei non è un professore, Boni, lei è un teledivo. La riconoscono per strada, la imitano, parlano di lei nelle chatline di Internet... «Un po’ di talento d’attore in questo mestiere fa comodo». Altro che un po’. Boni è un animale da studio. Parla senza mai perdere il filo per le tre ore filate della sua diretta quotidiana, s’aggira felino sulla moquette grigia, borbotta, grida, sussurra, lusinga: «Questo quadro ve lo vendo a 3 mila euro, aeeh, ma fra un anno un direttore di museo ve lo vorrà comprare per 10», decanta: «il numero 26 è un artista grande, aeeh, un artista fantastico, un artista enorme...», sgrida: «M’avete preso il 35 e mi lasciate il 48? Ma allora, aeeh, lo compro io...». «Vendere arte è un’arte», spiega lontano dalla telecamera, «non è come vendere pentole. Per carità, gli altri li guardo, Baracco, Roberto da Crema, non li disprezzo, anzi li studio, ma ho la mia tecnica». E funziona? Sorride: «Io non vendo quadri, vendo emozioni. Conosco l’effetto delle parole. So giocare coi toni, so con certezza a che punto arriverà la telefonata del cliente». E se non arriva? «Arriva, arriva». Eccome se arriva. Telemarket, creatura di quel curioso imprenditore-politico-patron che è Giorgio Corbelli, da 18 anni è la corazzata delle televendite d’arte; fatturerà per il 2001 oltre 100 milioni di euro, ovvero circa 195 miliardi di lire. Ma più dei numeri, gironzolando fra i tre studi televisivi, la showroom e gli uffici di Roncadelle, periferia di Brescia, impressiona la vista del magazzino. Dipinti per decine di milioni di euro di valore dichiarato, tele di Schifano, Fontana, Arman, Pozzati, Cascella, ma soprattutto di un’infinità di sconosciuti giacciono su grandi scaffali come pezzi di ricambio per lavatrici, i magazzinieri le impilano sui pallet e le spostano col muletto. Roba da far inorridire i galleristi tradizionali: «Vendono quadri come cotechini». Telemarket non viene invitata all’Artefiera di Bologna, la sua domanda d’iscrizione all’associazione galleristi è stata respinta. A Roncadelle fanno spallucce: «S’arrabbiano perché arriviamo dove loro non arrivano». Ma l’arte al tempo della tivù è un’arte strana, autoreferenziale. I capolavori, la telecamera se li fabbrica da sé. Per trasformare uno sconosciuto in un ”artista enorme” basta la promozione martellante, sera dopo sera, e qualche accessorio: «Vedete? I suoi quadri sono pubblicati» (ma i cataloghi li stampa Telemarket). I prezzi (per tutte le tasche, da poche centinaia a molte migliaia di euro) sono decisi con criteri misteriosi, benché si noti un vago rapporto fra costo e metratura. La tivù è garante di se stessa: i dipinti più costosi godono di telecertificato d’autenticità (una videocassetta dove un critico del calibro di Sgarbi decanta l’opera più o meno coi gesti e le parole del televenditore). Il serbatoio di Telemarket sono i pittori-fornitori a contratto, che probabilmente devono rispettare quote di produzione. «Sì, visto il mercato che possiamo garantire, gli artisti a contratto possono essere invogliati a lavorare più per la quantità che per la qualità. Ma poi emergono solo i bravi, e sono pochi». Ma lei, Boni, li propone tutti... «Devo farlo, Corbelli mi paga per questo, e francamente mi paga bene. Ma lo faccio con diverso entusiasmo. Nel mio cuore e sulle pareti di casa mia ci sono solo dieci firme». Quali? «Non lo posso dire», ride, «non mi passano neppure le telefonate dei clienti, per paura che dica quello che penso davvero». Dei quadri che ha televenduto in quindici anni, Boni ha perso il conto; sa solo che il primo fu uno Schifano, e il colpo più grosso «un Picasso da un miliardo e qualcosa, un olio piccolo, un po’ tardo ma carino». Da casa, dicono le statistiche aziendali, lo guardano 150 mila clienti registrati, mille in più ogni mese. In particolare casalinghe e pensionati tra i 45 e i 65 anni, reddito medioalto, propensione all’investimento, infarinatura culturale ma scarsa familiarità con il mercato dell’arte. Affezionati: l’82 per cento compra almeno due volte. Soddisfatti: la quota di rese è infima. Amano Sgarbi, che anche da viceministro mantiene su Telemarket una rubrica quotidiana («Sgarbi ci costa un occhio», finge di crucciarsi il direttore amministrativo Rossi, «ma ne vale la pena, ci dà un tono»). Amano sentirsi trattare da clienti colti e competenti. «Avrete capito, aeeh, il valore di questo quadro, di questa grande opera, di questo capolavoro...», Boni torna nella parte, s’ingobbisce, spinge sulla voce, «questa non è più arte, è storia, compratelo anche se non vi piace, vi portate in casa la storia...». In una delle tre cabine suona il telefono, è un cliente, Boni guarda in regia e strizza l’occhio. Michele Smargiassi