Corriere della Sera 21/03/2006, pag.37 Sergio Romano, 21 marzo 2006
De Gaulle, il generale che non piaceva all’ Italia. Corriere della Sera 21 marzo 2006. Condivido la sua analisi sulla grandezza della Francia, in assoluto e soprattutto a confronto con il nostro Paese
De Gaulle, il generale che non piaceva all’ Italia. Corriere della Sera 21 marzo 2006. Condivido la sua analisi sulla grandezza della Francia, in assoluto e soprattutto a confronto con il nostro Paese. Essa mi porta ad altre considerazioni come, ad esempio, che non è questione di «destra» o di «sinistra» - destra e sinistra, diceva il grande filosofo spagnolo José Ortega y Gasset, «sono termini da imbecilli» - e che le fortune, ma anche le sventure, dei Paesi sono legate alla personalità dei loro grandi uomini, se ci sono. Per questo, credo che de Gaulle sia stato, forse, l’ uomo di maggiore spessore del secolo scorso. Senza di lui non so quale sarebbe stato il destino della Francia. Gianni Celletti Caro Celletti, il generale de Gaulle salvò la Francia due volte. La prima fu nel giugno del 1940, quando incarnò l’ orgoglio nazionale e divenne un polo di attrazione per quella parte del Paese (piccola agli inizi, poi sempre più importante e decisiva a partire dal 1942) che ebbe il coraggio di ribellarsi all’ occupazione tedesca e di combattere a fianco degli Alleati nella fase conclusiva della guerra. La seconda fu nel 1958, durante la crisi algerina, quando riuscì a impedire che il Paese precipitasse nel vortice della guerra civile e, più tardi, lo costrinse ad accettare l’ indipendenza della sua vecchia colonia. Ma anziché parlare dei meriti che ebbe il generale in patria, preferisco ricordare il modo in cui de Gaulle venne giudicato dalla classe politica italiana. Il generale non piacque all’ Italia. Per i nazionalisti era l’ uomo che aveva tentato di annettere alla Francia la Valle d’ Aosta. Per i comunisti era un nemico. Per la Democrazia cristiana e la sinistra democratica era un generale autoritario, versione moderna di Georges Boulanger, il generale populista che aveva ispirato un velleitario tentativo di colpo di Stato in Francia agli inizi del 1889. Per gli europeisti era il paladino della «grandeur» francese, quindi un avversario. Allorché tornò al potere e cambiò rapidamente la costituzione francese instaurando un regime semi-presidenziale, la classe politica italiana parlò di colpo di Stato e sostenne che il generale detestava i partiti politici. I referendum con cui interpellò i suoi connazionali, vennero considerati plebisciti cesarei, rigurgiti di bonapartismo, simulacri di democrazia. Quando divenne vicepresidente del Consiglio nel governo di centro-sinistra, presieduto da Aldo Moro, Pietro Nenni non perdeva occasione per lanciare contro di lui le sue invettive democratiche. Dopo una delle sue abituali filippiche contro il generale, ricevetti al Quirinale (dove lavoravo nell’ ufficio diplomatico del presidente Saragat) una telefonata dell’ ambasciata di Francia durante la quale il mio interlocutore mi chiese puntigliosamente se i giudizi del vicepresidente del Consiglio sul presidente della Repubblica francese esprimessero il pensiero del governo italiano. Mi dette un’ arrogante e indisponente lezione di diplomazia, ma aveva ragione. Risposi che Nenni era anche un leader politico e parlava in quella veste piuttosto che nei panni del vicepresidente del Consiglio. Ma io stesso mi accorgevo che i miei argomenti non erano convincenti. De Gaulle, d’ altro canto, non faceva nulla per nascondere il suo giudizio sul nostro sistema politico. Amava l’ Italia, ma era convinto che la classe politica italiana avesse scelto quella che lui definiva la «democrazia dei partiti», vale a dire un sistema litigioso, verboso e inefficace in cui le ambizioni di un piccolo leader o di una piccola formazione politica potevano prevalere sull’ interesse nazionale. L’ opinione degli italiani accennò a cambiare quando de Gaulle, dopo essere stato sconfitto nel referendum sulla grande riforma costituzionale che aveva proposto al Paese dopo i moti studenteschi del maggio 1968, si dimise e lasciò il palazzo dell’ Eliseo nel giro di poche ore. Ma il rovesciamento del giudizio ebbe luogo qualche anno dopo, all’ inizio degli anni Novanta, quando la nostra classe politica si accorse (anche se molti rifiutarono di ammetterlo) che la sua analisi dei nostri mali costituzionali era stata profetica. Troppo tardi, purtroppo. Sergio Romano