Corriere della Sera 21/03/2006, pag.49 Guido Santevecchi, 21 marzo 2006
«Le regole del calcio hanno cambiato il mondo». Corriere della Sera 21 marzo 2006. Londra. «Dodici libri che hanno cambiato il mondo»
«Le regole del calcio hanno cambiato il mondo». Corriere della Sera 21 marzo 2006. Londra. «Dodici libri che hanno cambiato il mondo». Sotto quel titolo è legittimo temere un saggio ponderoso, con scelte pesanti come mattoni. Soprattutto se l’ autore, tra i suoi molti titoli accademici, vanta quello di Controllore delle Arti. E in effetti la lista del professor Melvyn Bragg parte nientemeno con i «Principia Mathematica» di Isaac Newton, prosegue con la Magna Charta del 1215, «Sull’ origine delle specie» di Darwin, le «Ricerche sull’ elettricità» di Faraday. Ma il professor Bragg non può trascurare «quel fenomeno che impegna sul campo un milione e mezzo di squadre, 5 milioni tra arbitri e guardalinee e ha causato almeno una guerra». Ecco che tra i «Dodici libri che hanno cambiato il mondo» irrompe il «Book of Rules of Association Football», il libro delle prime regole del calcio, pubblicato a Londra nel 1863. In quei tempi eroici i ragazzi di Oxford seguivano le loro norme, naturalmente diverse da quelle di Cambridge. E quelli di Rugby, poi, usavano le mani. Per spirito sportivo si cominciò a giocare metà partita con le regole familiari a una squadra e metà con quelle dell’ altra: nacquero così i due tempi. Ma non poteva andare avanti. «E così, il 26 ottobre 1863, nel pub The Freemasons’ Tavern, i delegati di una dozzina di club di Londra e dintorni si riunirono, costituirono la Football Association, si accordarono su 13 regole e le diedero alle stampe». Questo spiega Melvyn Bragg, anzi, bisogna dire Lord Bragg of Wigton, perché nel 1998 è stato elevato a Pari del Regno per i suoi meriti culturali. Ci sono molte teorie sulla nascita del gioco. Una lo fa risalire alla città di Chester, l’ antica Deva fondata dai romani. Cinquecento anni dopo la partenza degli ultimi legionari dalla Britannia pare che gli anglo-sassoni si divertissero a tirar calci alle teste mozzate ai loro nemici. Il gioco si diffuse (al posto delle teste arrivarono gli intestini degli animali), diventò tanto popolare che, nel Medio Evo, Re Giacomo I di Scozia se ne occupò. Con un divieto: «Nae man shall play fute-ball». Motivo? «Ogni uomo forte e sano deve usare il tempo libero dal lavoro per esercitarsi con l’ arco, da cui dipende la sicurezza nazionale». Lord Bragg non ricorda il calcio fiorentino e noi lo puniamo tagliando due o trecento anni delle sue ricerche storiche. Per riprenderle in un momento drammatico. Anno 1842, il Times scrive: «I poveri sono stati privati del loro divertimento». Succedeva che la chiusura delle terre da parte dei possidenti e le costruzioni di fabbriche in città avevano sottratto spazi alla palla. La salvezza venne dalle Public Schools, che, siccome gli inglesi sono sempre stati eccentrici nel comportamento come nel linguaggio, non erano scuole pubbliche ma privatissime, destinate alle classi dirigenti del Regno e dell’ Impero. E, poiché ogni scuola viveva in un suo mondo a parte, il football prese diverse forme. A Charterhouse, che era ospitata in un angusto ex monastero di Londra, si sviluppò l’ arte di dribblare la palla, «dialogare negli spazi stretti» e «giocare corto» come direbbe qualche mister di oggi. A Eton, dove c’ erano campi vasti e verdi, si calciava lungo e si pedalava (vizio della tattica inglese ancor oggi). E poi c’ erano quelli di Rugby che andavano via col pallone sotto il braccio: ma questa, quando furono fissate le 13 regole, diventò un’altra storia. Guido Santevecchi