Luciano Cafagna Le Ragioni del Socialismo, febbraio 2002, 27 marzo 2006
La trappola giudiziaria, Le Ragioni del Socialismo, febbraio 2002 Con una politica di destra della maggioranza dovremmo poter convivere, visto che abbiamo voluto una ”seconda Repubblica” con sistema politico maggioritario e relativo al metodo dell’alternanza
La trappola giudiziaria, Le Ragioni del Socialismo, febbraio 2002 Con una politica di destra della maggioranza dovremmo poter convivere, visto che abbiamo voluto una ”seconda Repubblica” con sistema politico maggioritario e relativo al metodo dell’alternanza. Convivere, naturalmente, non significa rinunciare a fare opposizione. Quando, però, entra in difficoltà la convivenza democratica? Per esempio, e senza alcun dubbio, entrerebbe in crisi quando la maggioranza dovesse tentare di adottare misure illiberali, misure che restringessero la capacità di azione politica dell’opposizione. Non siamo a questo. Però la convivenza può entrare in difficoltà anche se la maggioranza, e chi la guida, prendono a fare apertamente uso del processo legislativo o di quello amministrativo per alterare norme che possono decidere di sospette illegalità personali di questo o di quell’esponente della maggioranza stessa. Ciò - si badi, per non fare d’ogni erba un fascio - è qualcosa di assai di più del cosiddetto ”conflitto d’interesse”. Il conflitto di interesse nasce, in fondo, dalla difficile conciliazione di due diritti che però sono ambedue legittimi, e, che in linea di principio ha ogni cittadino, il diritto a svolgere attività economiche private e il diritto a farsi eleggere come rappresentante dei cittadini e farsi scegliere come governante. Quindi il presentarsi di un ”conflitto di interessi” in sé, non è motivo di scandalo. Tutto sta nel modo in cui; poi, lo si risolve, o no. Ma c’è qualcosa che può gettare, a monte delle scelte che si faranno, un’ombra inquietante su tutto questo. Ed è appunto l’eventuale verificarsi di un uso del principio di maggioranza nel processo legislativo o in quello amministrativo per alterare la norma o l’applicazione della norma che deve giudicare di sospette illegalità personali di questo o di quell’esponente della maggioranza stessa. Intollerabile in sé, questo comportamento, se e quando si manifesta (e questo è purtroppo accaduto), drammatizza sinistramente la stessa prospettiva di un conflitto di interesse non ben regolato. Di qui nasce, dunque, un disagio, nelle file della opposizione, che arriva a mettere in dubbio la possibilità della stessa convivenza democratica fra maggioranza e opposizione. Si forma una vera e propria indignazione. Qualcuno comincia a dubitare di una ”emergenza” nella nostra democrazia. A meno di dieci anni dal mutamento di sistema politico? Mica male per una ”seconda Repubblica” appena nata. Ma, a questo punto, non ci si orienta se non si collega il presente con il passato che immediatamente lo procede. Evidentemente la ”grande slavina” di cui qualcuno di noi parlò anni fa non aveva ancora prodotto tutti i danni di cui era capace. E cioè quel tarlo della delegittimazione della politica prodotto da una ”questione morale” non gestita politicamente, e da una ”guerra civile fra i poteri” con cui si pensava poterla risolvere. Perché il tarlo originario - non cerchiamo di fingere ignorarlo - è quello. E quel tarlo si è poi rovesciato come un boomerang su chi lo aveva avviato. Il cavallo sul quale Berlusconi ha cavalcato e, finora, vinto - bardato con le insegne dell’antipolitica - era stato sellato da quella magistratura antipolitica e sostitutiva che avviò la rivoluzione giudiziaria del 1992 e dintorni. Molti restano increduli quando si dice questo. Ma c’è da temere che questa incredulità derivi dal fatto che quei molti non hanno ancora capito bene cosa sia, nelle sue imperfezioni e nella sua insostituibilità, la democrazia dei nostri tempi. E cosa sia la ”politica” che della democrazia è l’insostituibile - a sua volta - gestore. Come condusse la sua battaglia quella magistratura ”sostitutiva”? Lo ha ricordato qualche giorno fa, con formula che meglio non si sarebbe potuta trovare, Luciano Violante: condusse quella battaglia «cercando direttamente il consenso». Molti giornalisti - bene o male i grandi mediatori del consenso e che lo furono di quel ”consenso” - oggi se ne pentono. Violante ha detto bene. Ma è un terzo della verità. Un altro terzo è certamente, che la classe politica di governo - e sarebbe assurdo ricordarsene - aveva lasciato che si aprisse una ”questione morale”, Craxi per primo. Aveva le sue ragioni, in un mondo politico in cui esistevano fonti di finanziamento profondamente ineguali. Però lasciar esplodere una ”questione morale” è, ahimé, anche un grave, gravissimo, errore politico... Ma il terzo di verità decisiva, e di cui si preferisce non parlare mai, è che un’altra parte della classe politica approfittò di quella situazione per un miope regolamento di conti. Si trattava di quella parte che non era coinvolta, o, diciamolo in termini più esatti, era coinvolta in modo meno appariscente, nella questione morale (quella ex-comunista). Fu il suo fallimento storico, il fallimento di una occasione unica per redimere le ambiguità di una storia di partito per metà certamente radicata nei problemi reali della società di questo paese, ma per metà, ancor più certamente, drogata da gravi inganni ideologici, ogni anno più consapevolmente e opportunisticamente gestiti. Evitiamo, ora, di aprire un dibattito astratto sulla esistenza o meno, in questo momento, di una situazione di ”emergenza”. Ma non possiamo non cominciare a chiederci cosa accadrebbe se Berlusconi dovesse essere improvvisamente disarcionato. Bene, ma non appena ci si pone questa domanda - e prima ancora di mettersi a congetturare risposte - ci si accorge di quale è il vero problema. Berlusconi ha oggi la maggioranza dei consensi politici in questo paese. E ha la maggioranza dei voti in Parlamento. Se venisse condannato dal Tribunale di Milano perderebbe l’una? Perderebbe l’altra? Probabilmente né l’una né l’altra. Potrebbe dover passare la mano ad un altro esponente della maggioranza, ma conserverebbe il controllo di questa in Parlamento. E conserverebbe, forse rafforzerebbe pure, il consenso maggioritario nel paese. Ecco allora dove, vivaddio, è il problema: questo consenso maggioritario nel paese. Senza incidere su questo, nella peggiore delle ipotesi, avremo un nuovo berlusconismo ”burattinaio” più becero e più cattivo. Nella migliore delle ipotesi avremo l’ennesima soluzione trasformista. Ma il problema resterebbe: quello della formazione di una maggioranza reale, non artefatta da una legge elettorale, non rappezzata in parlamento con tecniche trasformiste. Diceva Gramsci che bisogna imparare a capire che se si batte la testa contro il muro è la testa a rompersi e non il muro. Quella nuova e innovativa maggioranza non ci farà finché la sinistra non sarà capace di cominciare a pensare in un modo nuovo, a riflettere sui modi di costruire l’Italia come paese moderno e a comunicarli comprensibilmente agli italiani reali e non a quelli che non ci sono più. Non ci sarà finché la sinistra non la smetterà di correre dietro a identità miserabilmente minoritarie, ancorché amplificate da universalismi sentimentali, o ”trasferite” in questi. Finora Berlusconi ha fatto ”bingo” due volte, non una volta sola: primo, conquistando la maggioranza, e, secondo, ottenendo l’autoconfinamento della sinistra in un mucchietto di estremismi minoritari. E quindi, continuando così, l’Italia sarà governata da Berlusconi. Oppure, se a questi dovesse personalmente andar male, da uno dei soliti ”inciuci”, come si ama ormai chiamarli. Ben venga l’indignazione, dunque, perché, per i motivi che si sono detti prima, è sacrosanta. Ma l’indignazione, da sola, non soltanto non cambia granché, ma non sempre cambia in meglio. Può diventare un circolo vizioso: ci si indigna e poi ci si indigna contro chi non si indigna e via avanti così. Sono dieci anni che ci nutriamo di indignazione, fuggendo dal coraggio delle alternative. Potremmo continuare all’infinito, raggiungere i cento anni di solitudine. Ho un amico che ama spesso ricordare come Paul Valery dicesse che l’indignazione permanente è sintomo di ”bassezza morale”. Lui aggiunge: non so se sia giusto dir questo; ma, certamente, è sinonimo di ”bassezza politica”. Amen. Luciano Cafagna