Varie, 25 marzo 2006
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Joly Eva
• JOLY Eva Oslo (Norvegia) 5 dicembre 1943. Magistrato. Francese • «Ha passato la vita a setacciare le anime degli altri, a scovare dietro le parole, un guizzo di occhi, un agitarsi sulla sedia scomoda di una procura le complicate verità della corruzione. I suoi imputati erano “lor signori”, eccellenze che arrivano in tribunale abbronzati dal sole dei Caraibi, che hanno nelle sacocce il denaro della più grossa simonia che esista, quella politica. In Francia e altrove. Eva Joly, giudice intransigente, la faccia della locale “mani pulite”, è andata al cinema e ha scoperto con rabbia e angoscia che c’è un suo doppio: un Inquisitore arrogante, freddo come un iceberg, carnivoro che gioca con il destino degli altri, una termite indefessa, giustiziere in guanti rossi e occhiali da sole, Robespierre sadica che si insinua, perquisisce, scorrazza. Claude Chabrol l’ha vestita con i panni di Isabelle Huppert e l’ha trasformata in antieroina del suo acclamatissimo L’ivresse du pouvoir. Alla fine meno simpatica degli stessi colpevoli. Dandole il nome di Killman, ammazzauomini, è già un programma. In questo caso l’annuncio rituale che scorre all’inizio del film - “ogni allusione ai fatti realmente accaduti è puramente casuale” - è più formale che mai. Perchè la sceneggiatura è stata copiata sui verbali impregnati di mali umori dell’inchiesta giudiziaria sullo scandalo Elf; anni 90, un intero universo salito a galla, malversazioni miliardarie e bustarelle attaccate alle falde di tutti i partiti. Il fatto che fossero implicati in massa, senza distinzioni di bandiere non ne attenua la verminosità postuma. Il regista, nel suggerire la parte alla Huppert, ha attinto a piene mani alla vasta anedottica che ha accompagnato la carriera della Joly: detestata dagli avvocati per i suoi metodi duri, per il ricorso frequente alla prigione come mezzo di pressione. E questa antipatia è comprensibile come il fatto che le sue inchieste le hanno valso solide inimicizie nel mondo degli affari che ha passato ai raggi x. Ma lo stesso è accaduto presso i suoi colleghi. Quando è uscita dalla sala, il giudice ha detto di essere “disgustata”: “L’affare Elf è uno dei rari dossier finanziari in Europa in cui l’inchiesta non si è fermata agli uomini di paglia, la giustizia è risalita al più alto livello fino alla condanna dei colpevoli. La giustizia ha portato le prove di storni massici fino a 150 milioni di euro da parte di dirigenti. Chabrol riduce tutto questo a un seguito di luoghi comuni: politici machiavellici, patron banditi, burattinai, gli stereotipi sono come le voci: fioriscono quando la ragione ha difficoltà a definire una situazione normale. Visto dal regista il giudice istruttore è un essere solitario pericoloso e liberticida. Perquisizioni interrogatori confronti arresti non sono che pretesti per far vedere un giudice che si diverte con il suo potere. Chabrol ha sbagliato bersaglio. Sono atti indispensabili, legittimi e legali. Una democrazia senza braccia e senza armi sarebbe una democrazia di facciata [...] Chabrol ha scelto di violare l’intimità della mia vita privata. Nelle interviste che rilascia continua a aggiungere dettagli sordidi e falsi sulla mia vita personale di cui non sa nulla e senza alcun rapporto con l’istruttoria. Ma cosa gliene importa? Bisogna gettare l’insieme dei protagonisti nello stesso sacco: tutti mediocri, tutti marci, tutti colpevoli compreso il giudice”. Nel film il marito della Huppert tenta il suicidio senza riuscirci: è successo anche nella realtà ai tempi della istruttoria Elf. Con un destino più tragico perche l’uomo muore. E Chabrol come replica? Il regista abituato a camminare sui tizzoni della nuovelle vague sfoggia una delle sue battute: “So che il giudice si è rattristato per l’evocazione del suicidio del marito. È terribile, è una tragedia è per questo che l’abbiamo attenuata. Nel film non si getta dal sesto piano ma dal secondo e resta vivo...”» (Domenico Quirico, “La Stampa” 25/3/2006).