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 2006  marzo 23 Giovedì calendario

Thomas Mann. "La Germania esiste dove mi trovo io". Era un suo detto che per noi piccini - indottrinati dal "civis romanus sum" di Scipione l´Africano e di Italo Balbo - suscitava facili battute per l´affinità autoreferenziale con "L´tat c´est moi" del Re Sole e De Gaulle

Thomas Mann. "La Germania esiste dove mi trovo io". Era un suo detto che per noi piccini - indottrinati dal "civis romanus sum" di Scipione l´Africano e di Italo Balbo - suscitava facili battute per l´affinità autoreferenziale con "L´tat c´est moi" del Re Sole e De Gaulle. E magari con "Le style est l´homme même" di Buffon. Non lo dicevano Hesse o Brecht, certo, e tanto meno Rilke o Kafka si sarebbero sognati di far sapere che la letteratura tedesca andava avanti ovunque si posasse il loro pennino. Solo Mann poteva proclamarlo a Hollywood, accanto a Bing Crosby, Bob Hope, Dorothy Lamour. Però, da bambini studiosi e seri, lo si assolveva senza tante storie, perché allora gli autori che non si proteggevano con l´ambita e temibile "egemonia" secondo Stalin e Gramsci venivano malamente sputtanati nel "brago del decadentismo" dagli sbirri di Lukàcs e degli ex -Littoriali. In seguito, ci si è deliziati percorrendo non solo Beverly Hills (in memoria del Doktor Faustus ivi composto, con Greta e Marlene e Schönberg e Adorno e Chaplin a portata di mano), ma i grandi alberghi a cinque stelle ove Mann abitava in Svizzera: il Dolder a Zurigo, il Waldhaus a Sils-Maria, la leggendaria St-Moritz che diventava Italia o Austria o Iran o Grecia o Germania "in residence" a seconda che vi arrivassero gli Agnelli, o Karajan, o lo Scià, o i Niarchos, o i Thyssen, o Günter Sachs. Patrie non complessate da accuse di Formalismo o Astrazione, e con room service 24 ore. Così anche le più autorevoli biografie manniane si dilungano sui camerieri bellocci e tonti per cui l´insigne autore era uno dei tanti vecchi froci che gli facevano dei birignao al breakfast o in ascensore. E poi, nelle fototessere, i più vagheggiati somigliano magari a dei Peter Lorre adolescenti. Per il "quarto d´ora del buonumore accademico" i più birichini sussurravano invece che Adorno - così autoritario e intollerante in cattedra - nei corridoi e sugli ascensori tastava continuamente il sedere a tutte le segretarie come i "pomicioni in tram" delle vignette umoristiche. Ma secondo Anna Magnani, nel dopoguerra neorealistico faceva così anche il suo padrone di casa, un vecchio principe romano che andava su e giù apposta per tutto il giorno con l´ascensorino dello storico palazzo. Né Mann né Adorno, però, nelle loro fantasie apocalittiche alle spalle del silenzio creativo di Schönberg in California, ci spiegavano invece la straordinaria nascita di una musica "tipicamente americana" ad opera di geni tutti originari di ghetti e shtetl ashkenaziti nell´Europa orientale più povera: Gershwin, Weill, Copland, Bernstein, i migliori compositori di Broadway e Hollywood, i massimi violinisti e pianisti del Novecento. E ovviamente anche Dvoràk trasse ispirazioni eccellenti da un soggiorno nel Nuovo Mondo. Però niente veniva da Roma, benché piena di tradizioni musicali antiche e illustri, sia ebraiche sia cattoliche, da Palestrina in giù. In gita a Palestrina, si ricordava piuttosto che appunto lì appare al protagonista del Doktor Faustus non un Barberini signore del luogo bensì un distinto signore da teatro borghese che è poi il solito Diavolo sempre a caccia di uomini. Come quei sistematici dei pisciatoi che abitualmente allungavano le mani sulle anime belle. E di lì, via con le solenni peripezie patologiche e culturali che finiranno per l´attribuire una catastrofica "Apocalisse" più tedesca di Dürer a un compositore ebreo come Schönberg, affaccendato su personaggi quali Mosé e Aronne, e rientrato nella fede atavica col patronato di Marc Chagall. Mentre in una Palestrina simile forse alle cittadine toscane di E. M. Forster, si cantano tutt´altre musiche - opere italiane smandrappate - nella Piccola città di Heinrich Mann, fratello. In tutto questo, neanche una menzione di Palestrina, l´opera di Hans Pfitzner sul compositore omonimo: Giovanni Pierluigi. Eppure - prima dell´incompatibilità politica - ispirò decine di pagine entusiastiche a Thomas Mann, durante la Grande Guerra. Saggi e discorsi nelle Considerazioni di un impolitico, e per i cinquant´anni del compositore, iniziative per una società musicale a lui intitolata, consensi in seguito rimossi... Però, benché l´opera sia grandiosa e si svolga per due atti a Roma, e in un altro vi sia addirittura il Concilio di Trento, con papi e cardinali e tutto, nemmeno a Roma è mai stata eseguita. E nelle biografie appare pochissimo. Né si sa cosa Mann eventualmente opinò di una sensazionale gaffe politica di Richard Strauss: l´opera più pacifista mai composta, Friedenstag ("Giorno di pace") su libretto di Stefan Zweig, nel 1938 hitleriano! (C´è in un meraviglioso cd registrato da Giuseppe Sinopoli a Dresda, giustamente: il massimo del pacifismo col massimo del wagnerismo e del Kitsch).