Paolo Di Stefano Corriere della Sera, 14/02/2002, 14 febbraio 2002
«Nei gialli di oggi ci sono troppi trucchi e la morte è il meno che possa capitare», Corriere della Sera, giovedì 14 febbraio 2002 Firenze
«Nei gialli di oggi ci sono troppi trucchi e la morte è il meno che possa capitare», Corriere della Sera, giovedì 14 febbraio 2002 Firenze. Cesare Cases e il giallo? Niente di più apparentemente paradossale. Il critico marxista che in occasione di una laurea ad honorem (la riceverà in marzo a Bari) parlerà di un genere di consumo per eccellenza, borghese per nascita. Niente di più paradossale: il grande germanista, studioso di Lukács, Mann, Musil e Brecht, alle prese con Agatha Christie. Eppure è proprio così. Cases, a 82 anni suonati, raggiunge a piccoli passi la sua poltrona preferita, in una sala che guarda gli ulivi della collina fiorentina, per rivelare una sua antica passione. «Sono partito dall’ amore per Agatha Christie. Per me i suoi romanzi sono esempi tipici del giallo, poiché contengono tutti i requisiti del genere». Quali sono questi requisiti? «Primo: un assassino capace di intendere e di volere. I delinquenti patologici appartengono a un’altra categoria. Secondo: l’assassino viene individuato da vari indizi coordinati da un detective che non fa sempre parte della polizia, spesso ne ironizza i metodi e in genere non è sposato. Terzo: il detective entra nella logica del delinquente e la intende appieno. Quarto: c’è una società omogenea, in cui chiunque può essere l’assassino». Secondo questi criteri, il numero dei gialli veri e propri si riduce di molto. «Il giallo sembra avere trionfato su ogni altra forma narrativa, anche filmica o televisiva. Se esiste un plot, un intreccio, questo intreccio viene presentato come giallo. La rubrica televisiva ”Nel segno del giallo” in realtà tratta di psicopatici, l’opposto del giallo classico, dove il personaggio ha l’intenzione di nuocere. un vero cattivo». Colpa del giallo americano? «Da Hammett e da Chandler in poi, il giallo hard boiled va verso il patologico: è un romanzo di suspense. In certi casi non ci sarebbe neanche bisogno di un detective né di un cadavere. Mentre questo tipo di racconto specula sull’angoscia dell’uomo contemporaneo, il giallo specula sui residui illuministici: il detective compie la sua azione per rischiarare un mistero. Ammetto che i romanzi di Hammett sono meglio scritti e più realistici, ma non c’è più il conflitto tra buoni e cattivi, e il cattivo finisce per essere più buono dei buoni». A cosa si deve questo cambiamento? «Indubbiamente il giallo nasce, con Poe, Collins, Wallace e Conan Doyle, dalla coincidenza tra crisi del romanzo e aumento dei lettori. Ma presuppone una borghesia che ha paura di perdere la sicurezza a causa di qualche suo membro moralmente bacato. Alla fine della corsa, poi, c’è sempre un’ingordigia di denaro, che in epoca capitalistica è propria di tutti. A un certo punto però l’orologio della storia si sposta, la società cambia e si impone il giallo americano in cui tutti sono delinquenti salvo (forse) il detective e qualche anima pura. Questo schema però non dura, perché nessuno ha voglia di sentirsi dire che vive in una società delinquenziale. Così, mentre da una parte si torna al giallo classico, dall’altra si procede verso la deresponsabilizzazione del delinquente psicopatico. più facile vivere in un mondo di psicopatici che di delinquenti, anche se il risultato è il medesimo, cioè la morte. E poi c’è un’altra caratteristica». Quale? «Nei gialli americani si insinua il criterio della verosimiglianza. Non per niente Chandler rimproverò alla Christie di scrivere libri inverosimili. Si può pure ammettere che nell’Assassinio sull’Orient Express non c’è verosimiglianza. Ma perché Chandler sottolinea l’improbabilità delle coincidenze, piuttosto che ammirare il fiuto e l’acume di Hercule Poirot?». Simenon si ispira al genere classico? «Intanto ha inventato l’unico detective che abbia una moglie, anche se lei si limita ad ascoltarlo. Poi per lui è troppo importante lo sfondo parigino, il plot viene relegato in secondo piano rispetto al clima, all’ambiente». E oggi, che cosa è rimasto del giallo delle origini? «Come ultimo residuo del giallo si è conservato il plot, in chiave di suspense o di psicopatologia. il plot a caratterizzare la nostra epoca, in forme fin troppo raffinate anche perché la tecnologia vi si presta. Ma certe raffinatezze tecnologiche a me non piacciono: Kay Scarpetta, la detective della Cornwell, ne è specialista, però c’è un eccesso di trucchi che mi dà fastidio. Comunque è interessante capire come mai il romanzo sia rimasto quasi solo sotto forma di giallo». Come lo spiega? «Il giallo classico non ti lasciava dormire, invece ormai la morte è il meno che possa capitare e il lettore non ha niente in contrario che qualcuno venga fatto fuori. Anzi la morte finisce per riabilitare l’individuo a posteriori. A me non piace che solo la morte riesca a premiare un individuo. immorale, ipocrita». Esiste un giallo all’italiana? «Grazie alla competenza di Sciascia, la Sellerio ha pubblicato molti gialli: Rex Stout, Holiday Hall, Collins, Hammett, Glauser e tanti altri. Tra gli italiani, oltre a Camilleri, c’è Augusto De Angelis, con Il mistero delle tre orchidee. De Angelis (1888-1944) è il primo giallista italiano importante, il padre di quell’eccezionale commissario-intellettuale che è De Vincenzi. Ciò non significa che abbia inventato il giallo all’italiana, ma che da romano ha ambientato a Milano motivi e personaggi propri della narrativa anglosassone. All’italiana eventualmente sono le difficoltà che egli ha dovuto affrontare: il regime fascista infatti non aveva simpatia per un genere fondato sull’assassinio e che metteva in dubbio l’onnipotenza della polizia. Ma diciamo che in genere i nostri giallisti, per esempio Scerbanenco, applicano all’ambiente italiano le formule del giallo classico». Il giallo di Gadda? «Il Pasticciaccio è troppo aperto per rientrare nella categoria. E poi Gadda, come Sciascia, è troppo grande per essere un giallista». Eco? «Il nome della rosa è noiosissimo, troppo lungo. Come giallo non tiene. Solo leggendo L’isola del giorno prima ho capito che Eco è davvero uno scrittore». La donna della domenica? «Troppo lungo e complesso». Camilleri? «Mi è simpatico politicamente, ma da buon milanese faccio fatica a leggerlo». Paolo Di Stefano