Filippo Ceccarelli La Stampa, 15/02/2002, 15 febbraio 2002
Solo chi fa le nomine può sentire il vero gusto del potere, La Stampa, venerdì 15 febbraio 2002 Ah, le nomine
Solo chi fa le nomine può sentire il vero gusto del potere, La Stampa, venerdì 15 febbraio 2002 Ah, le nomine... E giù un sospiro. Di solito, quando ne parlano, i potenti assumono un’aria contrita, ingenua, o addirittura imbarazzata. Pare di ricordare Ciriaco De Mita, che come segretario della dc fu per diversi anni l’uomo più influente d’Italia, avviarsi verso l’aula di Montecitorio con una cartellina sotto il braccio. Sopra c’era scritto: ”NOMINE”. Allo stesso De Mita quella scritta in stampatello parve buffa, nella sua glaciale astrattezza. Eppure lì dentro c’erano figure, nomi, volti e problemi che più concreti non potevano essere. «Ah, le nomine...» sorrise come se fosse una mesta incombenza cui non poteva sottrarsi. Certo che no. I foglietti di Del Noce. La nuova classe di ”nominantes” non mostra altrettanti scrupoli estetici: rispetto alle cartelline demitiane, nel 1994 Storace e Del Noce giravano con foglietti con i nomi per viale Mazzini. Ma nel chiuso delle stanze, al momento della stretta, più di ogni altra quella pratica si continua a vivere con la stessa euforia, gli stessi brividi e risentimenti, e anche con le medesime lacrime, a volte. Nessuna attività dà più gusto al potere che ”fare le nomine”. Se poi si considera che i nominati dovranno, com’è nel caso della Rai, procedere a loro volta a delle nomine, questa circolarità distributoria, questo privilegio destinato a moltiplicarsi a cascata, questo sistema articolato e misterioso di premi e riconoscenze va al cuore stesso della politica, raggiungendone il suo significato più nobile. O almeno: dovrebbe. Il che in Italia non avviene quasi mai. Il cavallo di Caligola. Pregiudizio e invidia accolgono di norma qualsiasi nominato. A parziale giustificazione del malanimo nazionale tocca dire che questi sentimenti sono spesso assai giustificati. L’archetipo negativo è affidato all’imperatore Caligola che ”nominò” il proprio cavallo. La presenza dell’enorme statua proprio di un cavallo dietro le sbarre di viale Mazzini appare per certi versi significativa, per non dire simbolica. L’animale di Caligola aveva nome ”Incitatus” ed era da corsa. «Si disse - annota maliziosamente Svetonio - che Caligola volesse perfino nominarlo console». Il super-tifoso imperiale aveva perso la testa: gualdrappe di porpora, finimenti ingemmati, scuderie di marmo, mangiatoie d’avorio, servizi di scorta armata. I senatori non gradirono affatto l’idea del consolato equino, ma la trovata restò così a lungo negli annali che Giulio Andreotti, in vena di contestare una nomina, disse una volta: «Lei, senatore, mi richiama molto Caligola!». Ma anche lui, Andreotti, ebbe i suoi problemi, quando l’accusarono di aver nominato alla Consob un suo amico che fino a quel momento aveva diretto il pur famoso cine-teatro Brancaccio di Roma. Barzellette e tornei. Non è solo un fatto di cavalli o impresari posti a tutela del mercato borsistico. Né di amene storielle in voga alla Rai tipo: «Hanno nominato tre dc, due socialisti, un socialdemocratico e uno bravo». Per come si erano messe le cose in Italia, i nominati ebbero l’ultima parola su petrolio, navi, aerei, strade e autostrade di Stato. Poi banche e Casse di Risparmio, tanto che una volta il senatore Evangelisti, per celia, propose di sostituire la scritta ”Libertas” sullo scudo crociato con la dizione, appunto, ”Casse di Risparmio”. Più che nomine, quelli erano tornei con centinaia di concorrenti e la consapevolezza che una volta conseguita la nomina, prima di rimettere in moto il meccanismo, potevano passare - e passarono infatti - decenni. Non solo, ma il mosaico si complicava periodicamente a colpi di Camere di Commercio. A ogni cambio di segreteria democristiana o socialista, per lo più, gli equilibri cominciavano a scricchiolare e allora, come rimedio, si aggiungevano posti e poltrone. Altre nomine quindi andavano in porto, non di rado cementando alleanze che oggi si sarebbero dette ”trasversali”. Vedi tutta una leva di ambasciatori fanfaniani e nenniani; o una vasta schiera di Stati Maggiori partoriti da un pervicace connubio fra dorotei e demartiniani - e attorno a questi ultimi germogliò la barzelletta del colpo di stato dei generali, e di De Martino che chiede: «E a noi quanti ce ne spettano?». La crisi del nominificio. Se la Prima Repubblica è stata una fabbrica di nomine - non tutte ovviamente arbitrarie - è pur vero che lo si è cominciato a capire quando di molte è andata via via contestandosi la legittimità. Alcuni episodi - come quello che vide Nerio Nesi negoziare sulle banche per conto del Psi e uscirne come presidente della Bnl - fanno riflettere. I partiti se lo potevano permettere. Quando Donat Cattin si dimise da ministro, gli parve del tutto naturale di designare lui il suo successore (nella persona del sindaco di Porto Empedocle). Il fatto che non ci riuscì parve allora inusitato. Ma quando, ormai negli anni ottanta, dovettero sottostare a una logica che prevedeva la scelta dei nominandi da una terna predisposta dalla Banca d’Italia, ecco, a quel punto il loro potere, anzi il loro destino era già in qualche modo segnato. Ancora un po’ e un maestro come Duverger avrebbe potuto azzardare questa impietosa diagnosi: «La mafia e la camorra sono meno dannose dello straordinario sistema di nomenklatura mascherata da democrazia che da circa 40 anni prolifera nella Repubblica italiana». Il guaio è che esauritosi il canale partitico, o partitocratico che fosse, nulla lo ha sostituito. Ed eccoci al presente, cioè alla patatona bollente del CdA della Rai posta nelle mani di Pera e Casini, «che sono ancora giovani - come ha voluto graziosamente ricordargli Berlusconi - e vorranno continuare a fare politica». Vorranno sì, poveracci. Auctoritas o fidelitas? Ma il problema oltrepassa le eventuali ustioni dei presidenti delle Camere e riguarda semmai i criteri di selezione delle classi dirigenti. Criteri ritenuti generalmente al di sotto di quei ”minimi di civiltà” di cui ha scritto nel suo recente libro Sulle virtù pubbliche (Bollati Boringhieri, 208 pagine, 13,43 euro) uno studioso attento alle élites come Franco Rositi, secondo il quale «sarebbe rischioso sperare nell’apparizione di nuove élites che per incanto sappiano spezzare e buttar via il negativo di certe nostre tradizioni». Rispetto a queste, con qualche crudele paradosso, Rositi quasi si sorprende a rammentare le virtù che nella civiltà merovingia e carolingia avrebbero favorito una possibile nomina a cariche pubbliche: dignitas, honor, auctoritas, humilitas, strenuitas. Mentre il criterio prevalente rimane piuttosto quello della fedeltà (fidelitas), della vicinanza anche fisica al detentore del comando. Com’è ovvio è così da un bel pezzo: si diceva ad esempio che Enrico Mattei vedesse solo marchigiani e partigiani; e che la Rai fanfaniana fu presto popolata di giornalisti e annunciatori che aspiravano la ”c” come in Toscana; fino al ”clan degli avellinesi” di Biagione Agnes. Eppure l’impressione è che l’andazzo si sia accentuato. In altre parole: rispetto ai ”sinedri” o ai ”caminetti” democristiani, dal punto di vista della distribuzione delle cariche la ”corte” berlusconiana di Arcore o Palazzo Grazioli rappresenta un indubbio salto verso la nomina personale. Poteri occulti (e immaginati). Questo in teoria dovrebbe ovviare a scelte la cui regia avviene di nascosto con il contributo di entità invisibili e inconfessabili, anche se fin troppo spesso immaginabili e immaginate. Si va dalla massoneria - «Mai nominarla, sempre tenerne conto» sosteneva De Gasperi: e Gelli in effetti si dava da fare - alla Santa Sede, cui pare spetti una specie di ”non expedit” senza il quale pare che non si possa dirigere il Tg1. Fatto sta che nel suo diario (Maledetti professori, Rizzoli, 1994) Paolo Murialdi racconta la scenetta di una tornata di nomine a viale Mazzini con l’allora direttore generale Locatelli inseguito al telefono dal cardinal Sodano. Ci sono poi le pressioni dell’’Alto Colle”, vale a dire del Quirinale, sulla promozione e lo spostamento di prefetti, la scelta dei capi dei servizi e della polizia. Senza che l’accostamento suoni irriguardoso varrà comunque la pena di aggiungere che sempre in tema di nomine, tra un sospiro, una risata e una strizzatina d’occhio la gente è da sempre convinta che nella grande lotteria della politica influiscano altre due entità: il nepotismo (cfr i due volumi longanesiani di Locatelli e Martini, Mi manda papà, 1991 e Tengo famiglia, 1997) e l’alcova, che sotto la presidenza Gronchi portò addirittura a un dispositivo legislativo soprannominato ”legge Pompadour”. L’azienda delle 13mila tessere. La Rai tutto racchiude e tutto, a suo modo, esaspera. Ne L’uomo di fiducia (Mondadori, 1999) Ettore Bernabei confida a Giorgio Dell’Arti l’essenza stessa delle nomine senza tralasciare il suo ruolo di consigliere tempestivo quando, durante il funerale di Willy De Luca, favorì l’ascesa del suo successore Agnes, con l’avvertenza a De Mita di non seguire «procedure camorristiche». A quei tempi i membro del Cda erano 16, e su tutti doveva votare la Commissione di Vigilanza: un vero massacro. Alla metà degli anni ottanta Carniti venne individuato come il messia che avrebbe fatto piazza pulita nell’azienda - come disse lui stesso - delle ”13 mila tessere”. L’incontro con Agnes ebbe luogo al ristorante ”Foghér”. Il sindacalista ciucciava un mezzo sigaro spento; Biagione lo guardava con la faccia di pietra. Disse Carniti: «Prima delle nomine bisogna stabilire i criteri». E l’altro muto. «Ah, le nomine - pensava - le nomine...». Era lontano il tempo del ”Grande Fratello”, quando sentirsi dire «Sei stato nominato» significava uscire dal gioco. Filippo Ceccarelli