Cecilia Zecchinelli CorrierEconomia, 11/02/2002, 11 febbraio 2002
L’Iran cattivo che fa comodo a George W. Bush, CorrierEconomia, lunedì 11 febbraio 2002 C’ è una storiella che gira tra gli analisti petroliferi in Europa, da quando George W
L’Iran cattivo che fa comodo a George W. Bush, CorrierEconomia, lunedì 11 febbraio 2002 C’ è una storiella che gira tra gli analisti petroliferi in Europa, da quando George W. Bush ha annunciato alla nazione e al mondo la lista aggiornata dei suoi nemici: l’obiettivo vero era e resta l’Iraq, si dice, ma gli americani non potevano prendersela solo con un paese arabo, così hanno aggiunto l’Iran. Ma non potevano neanche avercela solo con due stati musulmani, e hanno inserito la Corea del Nord: la scelta dei Paesi è stata fatta così. «Nessuno crede a questa barzelletta, è ovvio, ma tutti sono molto perplessi dal fatto che l’Iran faccia ancora parte dell’’asse del male”, dopo il sostegno dato dalla coalizione anti-Talebani e lodato anche dall’Onu», dice Walid Khadduri, direttore della ”Middle East Economy Survey”, quotato settimanale sul settore petrolifero. E aggiunge: «Nell’industria energetica internazionale, praticamente nessuno crede che le parole di Bush preludano a un attacco all’Iran e nemmeno che siano state motivate dal petrolio. Ma tutti si chiedono perché le abbia dette. E a cosa porteranno». Se lo stanno chiedendo davvero in molti: l’opposizione americana (al Congresso, i democratici hanno ufficialmente domandato a Bush perché la scelta di quei tre paesi); il Big Business internazionale (che teme inaspettati sviluppi in Medio Oriente, al di là della prevista nuova offensiva contro Saddam); ancor più i partner politici degli Usa: dagli stizziti paesi arabi moderati (l’Egitto in particolare), ai ”nuovi amici” di Washington, russi e cinesi (Mosca, che ha stretti contatti economici con Teheran, ha reagito con molta irritazione all’uscita di Bush), al suo partner più stretto, l’Unione europea. Che continua a negoziare con Teheran un accordo di cooperazione economica e finanziaria con investimenti per 24 miliardi di dollari. E che ha «preso in considerazione le accuse americane contro l’Iran - come ha detto seccamente Josep Piqué, ministro degli Esteri della Spagna, presidente di turno dell’Ue -, ma continua a ritenere molto importante sostenere il processo di riforme e i settori riformisti del regime iraniano per via economica, commerciale, finanziaria». Un atteggiamento ribadito dai leader di tutti i Paesi europei, compresa l’Italia, che ha con l’Iran un «rapporto privilegiato e progetti di varie iniziative bilaterali, compresa un’imminente visita a Teheran del ministro Marzano», come dice una fonte diplomatica, e che nel 2001 ha visto l’Iran in testa alla lista dei paesi per impegni assicurati dalla Sace (1,1 miliardi di euro) con la prospettiva di mantenere questa leadership. «L’Eni ha una presenza importante in Iran, ma anche la Shell, i francesi di TotalFina e di Elf, i russi di Lukoil e Gazprom, mentre le compagnie Usa non ci sono per le sanzioni imposte da Washington nel 1996», dice Manouchehr Takin, senior analyst petrolifero del Centre for Global Energy Studies di Londra, una lunga carriera petrolifera alle spalle compresi nove anni all’Opec. «Ma è interessante ricordare come la posizione di Bush e ancor più del suo vice Cheney, due petrolieri, prima di arrivare alla Casa Bianca fosse diametralmente opposta: premevano perché le sanzioni fossero tolte e le compagnie Usa potessero rientrare in Iran, non certo per un irrigidimento delle relazioni con Teheran. Ma Houston non è Washington: ora prevalgono le ragioni politiche». Secondo Takin e altri analisti, Bush oggi non mira nemmeno a spiazzare i gruppi europei e rimpiazzarli con quelli Usa. E questo per vari motivi: pur essendo il secondo produttore mondiale, l’Iran non è un Paese chiave per l’industria energetica poiché non concede agli stranieri un vero accesso alle proprie riserve ma solo accordi di servizio; gli americani si stanno già muovendo altrove, ad esempio ora puntano ad accordi petroliferi in Russia; le società europee già presenti in Iran non sembrano spaventate né temono escalation militari (la Shell ha appena annunciato nuovi progetti); soprattutto: alle pressioni politiche ed economiche del ”Sheitun-e Bozorg” (il Grande Satana), l’Iran c’è abituato da 23 anni, da quando l’ayatollah Khomeini definiva così gli Stati Uniti. Per fargli cambiare strada con le brutte maniere ci vorrebbe ben di più: quella guerra che anche in Occidente sembra oggi una scelta improponibile. «L’unico aggancio con il petrolio - dice Takin - è che c’è una sovraccapacità produttiva di 6-7 milioni di barili al giorno e i prezzi sono bassi, ovvero il mondo non teme una penuria. Questo concede più spazio alla politica, perché è qui che vanno cercate le ragioni di Bush». Per un paese e un governo ancora scioccati dall’11 settembre e dalla memoria lunga (basti pensare agli anni che furono necessari per superare la Sindrome Vietnam), l’Iran - oggi in profonda trasformazione anche se in gran parte ancora ostaggio dell’ala più conservatrice - è ancora associato alla rivoluzione anti-Sha’ e agli ostaggi dell’ambasciata Usa. Un’immagine di paese ostile sicuramente alimentata con determinazione da Israele, che considera Teheran uno dei suoi principali nemici. Le fortissime pressioni di Sharon (che mai come in questa fase ha trovato le porte aperte a Washington), la fine della ”fase uno” della guerra (che aveva portato alle stelle la popolarità di Bush, oggi alle prese con recessione e caso Enron), la necessità di passare alla ”fase due” con una revisione delle alleanze (si pensi al ruolo in trasformazione dell’Arabia Saudita), l’ormai rara e isolata determinazione con cui Teheran appoggia Arafat e i suoi accertati legami con gli hizbollah (quelli con al Qaida sono da dimostrare ma generalmente ritenuti improbabili, vista la storica ostilità tra questa e l’Iran sciita): tutto questo deve aver portato ad inserire l’Iran nell’’asse del male”. A cosa questa scelta potrà portare è un altro discorso. Cecilia Zecchinelli