Marco D’Eramo il manifesto, 12/02/2002, 12 febbraio 2002
Alla Mecca la droga arriva con i pellegrini, il manifesto, martedì 12 febbraio 2002 E’ in corso il primo pellegrinaggio alla Mecca dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre scorso
Alla Mecca la droga arriva con i pellegrini, il manifesto, martedì 12 febbraio 2002 E’ in corso il primo pellegrinaggio alla Mecca dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre scorso. Per il più grande pellegrinaggio religioso al mondo, si attende quest’anno un’affluenza record per i rituali che culmineranno il 21 febbraio con l’ascesa al monte Arafat, ma anche un apparato di sicurezza senza precedenti. Poiché ogni musulmano che nella vita almeno una volta è stato alla Mecca può fregiarsi del titolo di Haji, ”santo”, all’aeroporto di Gedda quest’immane marea viene canalizzata nello speciale Haji Terminal, separato dagli arrivi internazionali, una struttura a cielo aperto con 210 tende in fiberglass, tutti i comforts moderni e 1.100 cessi, come riporta Elaine Sciolino del ”New York Times”. Il Ministero del Pellegrinaggio e delle Offerte saudita ha assoldato due ditte, una statunitense per assicurare lo scanning degli occhi, e una francese per quello delle impronte digitali di un campione a caso degli oltre 1,5 milioni di pellegrini di più di cento paesi (la ditta francese ha già contratti con le Poste Usa e con il Dipartimento di polizia di New York). Il nervosismo della dinastia saudita è comprensibile. Da un lato sono ancora vivi sanguinosi ricordi: quello del 1979, quando un esaltato sunnita occupò con i suoi fedeli la grande Moschea della Mecca, luogo di nascita del profeta Maometto: più di cento persone furono uccisi nel lungo assedio delle forze saudite; e quello del 1987, quando furono 402 le vittime di scontri tra polizia e manifestanti iraniani: l’ayatollah Ruhollah Khomeini aveva appena definito la dinastia saudita «vile e miscredente». Parole simili a quelle con cui l’ormai censurato Osama bin Laden ha attaccato i regnanti di Riyad. Ed è questo il secondo motivo di ansia dei 7.000 membri della dinastia Saud: un obiettivo - collaterale, ma non perciò meno importante - dell’attacco dell’11 settembre era proprio rovesciare la casa reale. Se poi si aggiunge che 15 dei 19 dirottatori dell’11 settembre avevano passaporto saudita, si capisce bene come il vero detentore del potere, il principe Abdullah, tema che indigeni estremisti islamici sfruttino il pellegrinaggio per far convergere alla Mecca fondamentalisti di ogni paese e, perché no, anche i membri della diaspora di al Qaida. Che una delle dinastie più bigotte e più integraliste al mondo debba oggi temere quel fondamentalismo che per decenni ha foraggiato, ci rivela la crisi che sta maturando nella penisola arabica. Ma i poliziotti alla dogana hanno trovato non tritolo o Semtex, quanto coca ed ero (un pellegrino proveniente dall’India è stato arrestato con 2 chili di eroina). E l’afgano che più spesso hanno riscontrato è stato il nero, nel senso dell’hashish. D’altronde non è da oggi che l’Haji, il pellegrinaggio santo, è occasione di spaccio, proprio come nel Medioevo cristiano bordelli e bettole costellavano il cammino di Compostela o la via Romea. L’Arabia saudita può essere uno degli stati più proibizionisti al mondo, ma è sempre possibile trovare alcool o roba a Qarantina, un quartiere di Gedda così chiamato perché era l’area dove i pellegrini infetti da malattie contagiose venivano messi in isolamento. Qui si può comprare una bevanda molto forte fatta di latte di palòa fermentato. Qarantina è una delle zone più miserabili di Gedda, un porto di 3 milioni di abitanti, privo però a tre quarti di un qualunque sistema di fognatura, tanto che ogni giorno un corteo di almeno 1.000 camion preleva 50.000 metri cubi dalle fosse settiche per andarli a riversare nelle discariche all’interno del paese, dove i liquami tossici s’infiltrano nelle rarissime, insostituibili falde acquifere di una terra desertica. E la stessa dinastia che è stata incapace di costruire un sistema fognario si è però eretta almeno 200 fastosi palazzi principeschi nella sola città di Gedda (senza parlare della capitale Riyad). Lo spaccio di Qarantina e le requisizioni all’Haji Terminal mostrano quanto si stia diffondendo l’uso della droga in questa società puritana. Come nel vicino Kuwait, sono state aperte cliniche di disintossicazione (in Kuwait, testimonianze dirette parlano di assuefazioni non solo maschili ma anche femminili). A sua volta, il consumo di droga è uno dei sintomi della crisi generazionale che sta sconvolgendo l’Arabia saudita, un paese in cui più del 50 per cento degli abitanti ha meno di 18 anni e più del 65 per cento ne ha meno di 25. La crisi è dovuta al combinato composto dal ventennale scialo degli introiti petroliferi e dall’altissimo tasso di fertilità delle donne saudite (il quintuplo rispetto a quella delle donne europee). L’esito è che oggi in Arabia vivono 21 milioni di persone (di cui 15 con nazionalità saudita e 6 milioni di stranieri), mentre nel 1982 la popolazione era stimata a 9,8 milioni. Con il risultato che nel 1980, anno record degli introiti petroliferi, i proventi dell’oro nero furono 23.800 dollari a testa saudita, mentre oggi sono soli 2.600 dollari Usa. Proporzionalmente, il reddito pro capite è ora di 7.000 dollari l’anno contro 28.000 dollari nei primi anni 80. Il fatto è che il fiume di denaro sprizzato dai pozzi petroliferi è in gran parte defluito verso gli Stati uniti, ma quel che è restato nella penisola arabica si è tutto dissolto in una corruzione a cascata, sempre più frammentata dall’alto verso il basso, fino a diventare un misero rivoletto nelle tasche dei cittadini comuni di cui alimentavano soltanto l’itikali, ovvero la voglia che qualcun altro assolva i tuoi compiti. E infatti per un ventennio la dinastia saudita ha assicurato gratuitamente ai suoi cittadini (per gli immigrati è un altro discorso) cure sanitarie ed istruzione a livello universitario, come anche esenzione dalle tasse, mutui agevolati per la casa, e - last but not least - un impiego pubblico assicurato a tutti i maschi, a 7.000 dollari l’anno, con l’obbligo - solo teorico - di andare a lavorare dalle 10 alle 2. Una sinecura. Aggiungi i massicci acquisti di sofisticatissimi (e perfettamente inutili) sistemi d’arma statunitensi, gli investimenti nelle borse di Londra e New York, il quasi forzoso acquisto di centinaia di miliardi di dollari in Federal Bonds degli Stati uniti, ed ecco che quello che in teoria dovrebbe essere uno degli stati più ricchi al mondo, si trova ad affrontare deficit pubblici crescenti: in assenza di statistiche verificabili, la ”Süddeutsche Zeitung” riferisce che il londinese Centre for Global Energy Studies (Cges) valuta a 6,7 miliardi di dollari Usa il deficit pubblico saudita nell’anno scorso, il 4 per cento di un Pil valutato a 175 miliardi di dollari Usa. Per quest’anno il deficit è previsto intorno ai 12 miliardi di dollari Usa, cioè il 7 per cento del Pil. Ma con l’ulteriore calo degli introiti petroliferi, l’Arabia perderà altri 14 miliardi di dollari. In questa situazione non è più sostenibile la cultura pubblica dell’itikali, con conseguenze per lo meno comiche, a stare a Neil MacFarquhar del ”NYT”. Nel 1996 il regime ha infatti approvato una legge per cui in ogni impresa la percentuale di lavoratori sauditi avrebbe dovuto crescere del 5 per cento all’anno: lo scopo era di ridurre il ricorso alla mano d’opera immigrata. In cinque anni vi sarebbe dovuto essere quindi un 25 per cento di dipendenti sauditi. Questa soglia è stata facilmente superata nelle banche e dalle istituzioni finanziarie dove il lavoro si svolge in belli uffici con l’aria condizionata. Ma sbracciarsi in una fabbrica di dolciumi per soli 6.000 dollari l’anno è un’altra cosa. Così, all’azienda nazionale dei biscotti, se le quote fossero rispettate, dovrebbero esserci 110 sauditi, ce ne sono 50, e il tasso d’assenteismo che per un immigrato nepalese è del 18 per cento, per i sauditi supera il 50 per cento. Per capire la mentalità vigente, basti quest’esempio: che un albergo abbia un fattorino porta-bagagli di nazionalità saudita merita la foto in prima pagina di un importante quotidiano nazionale (in Kuwait la prima commessa kuwaitiana di un McDonald’s aveva avuto lo stesso onore delle cronache). D’altronde, perché mai un giovane saudita, con un’educazione universitaria e tirato su da genitori rentiers, dovrebbe sudare e infarinarsi le mani? è una società senza sbocchi, repressa, dove nelle strade non si vede un’insegna, dove i marciapiedi sono vuoti, niente pedoni, niente donne, niente bambini. E ora, alla disperata, la dinastia saudita cerca introiti nei settori più improbabili, anche in quelli, come il turismo, che fino ad ora ha ostacolato tetragona, per timore del contagio occidentale. A tutt’oggi il viaggiatore singolo non è ammesso in Arabia saudita. Viaggi di gruppo devono essere sponsorizzati da musei, università, associazioni di alunni (questo nel caso degli Usa). Ma sono carissimi. Un pacchetto tutto compreso di 14 giorni, viaggio aereo New York-Riyad incluso, costa la bellezza di 7.800 dollari, quasi 9.000 euro! Nello stesso tempo però, sempre alla disperata ricerca di denaro, ecco che ai sauditi viene la brillante idea di espandere un parco a tema già esistente vicino a Gedda, Jungle Land, fino a portarlo a 14 ettari, come parte di un nuovo parco, Adventure World. Per realizzarlo, la compagnia saudita si è affidata a una ditta canadese, JPI Design che aveva già disegnato parchi a temi nelle Filippine e in Australia e aveva collaborato alla realizzazione della Disneyland di Parigi. JPI si è però subito scontrata con le barriere culturali, racconta il ”Los Angeles Times”. In un’animazione, alcuni pirati venivano catturati perché ubriachi di rum. Non se ne parla neanche, qui nessuno beve, ha reagito il committente saudita. Alla fine, ai pirati gli hanno imposto un pisolino. Il tema principale del parco sarà così il ”miraggio”, e dovrà essere adattato la clima: il parco sarà aperto non di giorno, ma dalle 5 di sera alle 4 del mattino. C’è un particolare però che ci svela la confusione mentale prodotta dal frullato di globalizzazione e wahabismo. Un minestrone sciacqua nei crani che da un lato progettano parchi a temi e accettano di disneylandizzare l’Arabia, ma dall’altro tolgono dalle vetrine dei negozi il gioco per bimbi Pokemon perché incoraggerebbe comportamenti non islamici come lo scommettere, e perché un po’ sionista (?). Vai a vedere dove si mette la difesa dell’identità. Marco D’Eramo