Guido Olimpo Corriere della Sera, 21/02/2002, 21 febbraio 2002
Mitra e caffè, Corriere della Sera, giovedì 21 febbraio 2002 Ramallah. Il miliziano ha il volto da bambino, ma i modi da duro
Mitra e caffè, Corriere della Sera, giovedì 21 febbraio 2002 Ramallah. Il miliziano ha il volto da bambino, ma i modi da duro. Sul petto brillano i caricatori, in testa un cuculo nero. Il Kalashnikov è sul tavolo come fosse un mazzo di chiavi. Jamal, questo il nome di battaglia, sposta l’arma e ci invita a sederci. Intanto il mitra gli cade un paio di volte. Alla fine decide di togliere il caricatore. Non si sa mai. I suoi compagni, seduti attorno, ridono. Anche loro sono armati fino ai denti. Si rilassano bevendo un bicchiere di latte e caffè in un bar di Ramallah trasformato in punto di incontro. Anzi, è quasi un covo. è qui, sotto una tv sempre accesa, che discutono su cosa fare quando cala il buio. Adesso festeggiano. I ragazzi, quasi tutti sulla ventina, fanno parte delle Brigate al Aqsa, fazione legata ad al Fatah responsabile di molti attacchi. Compreso quello costato la vita a sei soldati israeliani, uccisi a un check point nel villaggio di Ein Arik. Un colpo micidiale al prestigio dell’esercito di Israele. La banda tace quando nel bar entra, con passo lento, un uomo sulla quarantina. Nessuno osa dire una parola senza la sua autorizzazione. Al massimo annuiscono con la testa. è lui il boss. Non gli piacciono i giornalisti e si vede: «Il proprietario del tuo giornale è un ebreo?», chiede come se stesse parlando del diavolo. «Quello che è accaduto l’altra sera a Ein Arik dimostra che questo è l’unico modo per conquistare l’indipendenza. Stiamo migliorando in tattica e strategia. Aspettatevi altre sorprese. Avete visto cosa è accaduto ai sei soldati: sono spariti come insetti», afferma il capo. Interviene un altro attivista per spiegare che la genta è contenta del blitz. «Abbiamo eliminato dei soldati e colpito un check point, il simbolo dell’occupazione». Il posto di controllo di Ein Arik è stato creato in una gola stretta, in pieno territorio palestinese. Non ci sono basi o colonie da difendere. Solo una forca caudina dove umiliare i civili. Se ne sono accorti persino i responsabili militari che avrebbero deciso di togliere molti check point. Perché non servono a nulla, non prevengono la violenza e creano solo odio. «Sapete quante donne hanno partorito davanti a quel blocco?», affermano i miliziani per giustificare il loro attacco. In realtà l’operazione di Ein Arik rientra nella nuova strategia elaborata dai responsabili dell’intifada. «C’è un ampio consenso a concentrare le operazioni su colonie e soldati evitando quelle all’interno di Israele», spiega Abu Leila, esponente di spicco del Fronte democratico. I palestinesi vogliono dimostrare quanto sia fallimentare la politica di Sharon e contano molto sulla rinascita del movimento pacifista israeliano. «Loro sono davanti ad un dilemma – aggiunge Abu Leila -. Ma anche Arafat ha i suoi problemi». Da una parte il raìs può esultare per i successi della guerriglia, dall’altro deve badare a non legare il suo nome a quello degli estremisti. Soprattutto quando si parla delle Brigate al Aqsa. «Arafat si è rifiutato di scioglierle malgrado ci fosse un’ampia maggioranza nel Fatah in favore di questo passo. Adesso è lui il responsabile politico del gruppo e qualsiasi azione ricade sulla sua testa». Posizione non comoda. Fonti palestinesi ci hanno rivelato che egiziani e americani hanno fatto pressioni dirette su Arafat affinché smantellasse la fazione. Ma il raìs ha preferito rinviare tutto per non scontrarsi con la piazza che ammira le Brigate. Un prestigio destinato a crescere se i militanti ripeteranno attacchi come quello di Ein Arik. Lo testimoniano le parole di Siam, una cristiana che vive nei pressi del check point della strage: «Mi spiace per quei giovani soldati, però quel posto di blocco per noi rappresenta la sofferenza quotidiana. E alla fine sono felice». Guido Olimpio