Marina Morpurgo diario, 22/02/2002, 22 febbraio 2002
Wafa è morta per una bomba difettosa e ora Saddam vuole farle un monumento, diario, 22 febbraio 2002 Milano
Wafa è morta per una bomba difettosa e ora Saddam vuole farle un monumento, diario, 22 febbraio 2002 Milano. Una delle fotografie, forse quella che ha più girato il mondo, ce la mostra sorridente, un volto liscio e angelico: intorno alla fronte, la fascia dei martiri. Altre foto appaiono più spontanee e molto diverse: Wafa Idris abbraccia la madre, seduta su un divano. è una donna grassottella, guance un poco gonfie, labbra vistosamente marcate con il rossetto, e nulla - nello sguardo - che faccia presagire un’ansia di martirio. La vediamo sorridere, anche se naturalmente sappiamo molto bene che di motivi di sorriso nella vita deve averne avuti pochi, specialmente nell’ultimo anno e mezzo. Il 27 gennaio 2002, di primo mattino, Wafa Idris è partita dal campo profughi di al-Amari, 8 mila persone ammassate nei pressi di Ramallah. Apparentemente una giornata come le altre: Wafa lavorava come volontaria per la Mezzaluna Rossa, prestava servizio sulle ambulanze. Ma alle 12.20 di quella stessa mattina, una bomba è esplosa in rehov Jaffo, a Gerusalemme, un luogo così bersagliato dagli attacchi terroristici da essersi guadagnato il poco ambito soprannome di Ground Zero. Pochi minuti dopo l’esplosione, il signor Pinsker, proprietario di un negozio di mobili, ha fatto la macabra scoperta: una testa femminile, dai lunghi capelli neri, unico resto di un corpo sbrindellato. E il ”normale” attentato - una anziana signora morta, più di cento feriti - ha preso un significato diverso, ancor più crudele. Era stata, con tutta evidenza, una donna a compiere il macello: quella giovane donna che, istanti prima dell’esplosione, era entrata in un negozio di calzature e in arabo aveva chiesto il prezzo di un paio di scarpe. L’esplosivo portato da Wafa ha ucciso e distrutto. E innescato a distanza meccanismi perversi. In questo casi, una corsa alla rivendicazione e all’aureola del martirio, da parte palestinese. Da parte israeliana, una campagna di sospetto contro le ambulanze della Mezzaluna Rossa: il 15 febbraio è comparsa sui giornali israeliani la notizia - la fonte erano ufficiali dei servizi di sicurezza - che all’attentato di rehov Jaffo erano coinvolti non solo Wafa, ma anche dei suoi colleghi (Mohammed Hababa, attivista di Fatah e conducente di ambulanze, e Monsour Noor, impiegato). Ci sono parecchi indizi che portano a pensare che Wafa Idris sia arrivata a Gerusalemme a bordo di un mezzo di soccorso: una brutta tegola sull’immagine della Mezzaluna Rossa, proprio nel momento in cui tra i ranghi dei riservisti dell’esercito israeliano serpeggia - e viene espresso - il disgusto verso azioni ritenute moralmente riprovevoli, come quella di fermare un’ambulanza ”del nemico”. Non a caso, tra tante voci che inneggiavano alla bellezza del farsi saltare per aria, se ne è sentita una molto diversa e accorata, quella del dottor Hussam Al-Sharqawi, responsabile della Mezzaluna Rossa: «Noi insegnamo ai membri del nostro staff ad aiutare la gente, senza guardare alla religione, al colore, alla nazionalità, o a qualunque altra classificazione. Vedere che uno di noi uccide altre persone ci addolora enormemente, perché questo contraddice i nostri valori umani, che non ci hanno impedito e non ci impediranno di aiutare perfino i soldati e i coloni, se necessario». Da parte araba, il meccanismo perverso della glorificazione di un gesto tanto disperato quanto sterile si è messo in moto in modo ancora più massiccio, a dispetto del procedere delle indagini sulla dinamica dell’attentato: una serie di elementi - la mancanza del video che viene registrato come messaggio d’addio del kamikaze e la mancanza di una rivendicazione immediata e precisa (Wafa è stata identificata solo mercoledì 30 gennaio, in seguito all’arrivo di un volantino delle Brigate dei martiri di Al Aqsa, l’ala militare di Fatah; in precedenza il gesto era stato addebitato prima a una inesistente studentessa dell’Università di Nablus, poi a una militante della Jihad islamica di Betlemme) - ha portato gli inquirenti a stabilire che non di un attentato suicida si trattava, ma di un attentato non perfettamente riuscito. Wafa Idris portava l’esplosivo in una borsa, e non addosso a sé: con ogni probabilità c’è stato un innesco anzitempo, che non le ha permesso di sfuggire gli effetti del suo gesto. Si sarebbe trattato dunque di un atto insolito - le donne palestinesi hanno partecipato alla resistenza contro l’esercito israeliano, ma non sono state protagoniste, nel passato, di molti atti di violenza terroristica - ma non del primo caso di kamikaze donna palestinese. Statistiche della Palestinian Working Women’s Society for Development dicono che tra il settembre 2000, mese di inizio della seconda intifada, e l’agosto 2001, sono state 30 le donne rimaste uccise durante azioni militari, su un totale di 650 vittime: ma di queste 30 - sei erano bambine - nessuna, come riferisce perfino il quotidiano conservatore israeliano ”Jerusalem Post”, stava fronteggiando volontariamente il nemico. In questa seconda intifada, di donne legate a fatti di sangue, e non nella veste di vittime, si ricordano solo Amana Mona - che, Dalila dei tempi moderni, tramite internet ha adescato un adolescente attirandolo a Ramallah in una trappola mortale - e poche altre, come tal Issaweih Abatsam, quasi tutte autrici di accoltellamenti raramente ”ben” riusciti. Studiose di movimenti femminili, come la professoressa Eileen Kuttab dell’Università di Bir Zeit, hanno messo in risalto questo fatto, che contrasta per esempio con quanto avvenne negli anni Settanta, quando donne come Leila Khaled o la meno nota Therese Halaseh, militanti di formazioni terroristiche laiche, presero parte a una serie di clamorosi dirottamenti aerei. Il fenomeno avrebbe molte cause e, tra queste, la disillusione femminile nei confronti di una società che, prima aperta di fronte ai desideri di emancipazione e partecipazione, si è poi richiusa, tanto è vero che su 3.499 rappresentanti locali palestinesi solo 22 sono donne. Ma un altro elemento importante, dicono le studiose, è che in un momento di enorme difficoltà le donne palestinesi si sono trovate assorbite dal compito di garantire la sopravvivenza della famiglia, e dall’elaborazione di strategie di resistenza passiva. Lucy Nusseibeh è la moglie del deputato palestinese Sari Nusseibeh, uno dei pochi che ancora sostengono con coraggio la possibilità e la necessità di riaprire un dialogo serio tra le due parti. Lucy ha scritto di recente in un articolo pubblicato sul ”Al-Quds” a Gerusalemme e su ”Al-Hayat” a Londra: «La resistenza non violenta può essere un’asserzione di umanità ed è lo sviluppo di un potenziale, mentre la violenza prevalentemente distrugge un potenziale... i palestinesi oggi vivono nella disperazione totale. Molti bambini ora non sognano altro che diventare martiri... è questo che la maggior parte delle donne deve affrontare. In una situazione di assedio e bombardamenti, con le donne e i bambini che pagano il prezzo più alto, l’affrontare questo è già di per sé un’asserzione di non-violenza». Le analisi hanno avuto un modestissimo successo mediatico. Molto più efficace, nel mondo arabo, e veloce è stata la campagna di beatificazione di Wafa Idris, assurta - quasi certamente suo malgrado, come si è visto - al ruolo di prima kamikaze femmina del conflitto israelo-palestinese. Altri conflitti hanno già visto donne autoimmolarsi in atti di terrorismo. Nel corso di una conferenza internazionale sul terrorismo suicida, nel febbraio 2001 a Herzlya, il professor Yoram Schweitzer ricordò i dati della partecipazione femminile. Le donne kamikaze sono attive tra le tigri tamil ( sono responsabili del 30-40 per cento di attacchi suicidi: il 17 dicembre 1999 una donna kamikaze cercò di assassinare il presidente dello Sri Lanka Chandrika Kumaratunga), tra i curdi del Pkk (protagoniste di 11 dei 15 attentati suicidi portati a compimento, e di 3 dei 6 attacchi sventati), e tra i siriani del Partito socialista nazionalista. Il professor Schweitzer non ne ha parlato, ma periodicamente vengono lanciati allarmi da parte dei servizi segreti russi: miliziani arabi avrebbero addestrato una trentina di kamikaze cecene. Di questi atti sappiamo poco o nulla, diversamente da quel che accadde per la vicenda di Wafa Idris, a noi più vicina. Il più lesto a impadronirsi dell’icona è stato Saddam Hussein, che - poche ore dopo l’identificazione della giovane donna - ha annunciato l’intenzione di erigerle un memoriale, su una delle piazze principali di Baghdad. Subito dopo si è aperto il dibattito religioso sulla liceità, da parte di una donna, di partecipare alla guerra santa. Il dibattito può essere seguito sul sito www.memri.org ed è molto interessante, dal punto di vista sociale, politico e perfino letterario, con richiami a Giovanna d’Arco, e - meno comprensibilmente - a Gesù Cristo. Come si poteva leggere in arabo su ”Hadith al Medina” (Egitto) il 5 febbraio e in inglese su ”Al-Quds Al-Arabi”: «Forse siete nati nella stessa città: forse nello stesso quartiere e nella stessa casa. Forse avete mangiato i datteri della stessa palma e bevuto la stessa acqua pura che scorre nelle vene della Città Santa. Se è stato lo Spirito Santo a mettere un bambino nel ventre di Maria, forse lo stesso Spirito Santo ha messo una bomba nel cuore di Wafa e avvolto il suo puro corpo nella dinamite. Dal ventre di Maria è nato un bambino che ha eliminato l’oppressione, mentre il corpo di Wafa è diventato shrapnel che ha cancellato la disperazione e suscitato la speranza. Non è sorprendente che il nemico in entrambi i casi fosse lo stesso (i nemici sono gli ebrei; la prosa è del professor Adel Sadeq, capo del Dipartimento di psichiatria dell’Università Ein Shams, al Cairo, ndr)». In mezzo all’entusiasmo e agli auspici di vedere in futuro migliaia di altre giovani immolarsi, si è alzata una voce di dissenso, quella dello sceicco Ahmed Yassin, capo spirituale di Hamas. Ma si è trattato di un dissenso di tipo organizzativo, e non religioso. Abbiamo già troppi aspiranti martiri maschi, dice lo sceicco Yassin, e il movimento islamico non ha i mezzi per assorbire tutti coloro che vogliono confrontarsi con il nemico israeliano: «Siamo entrati in questa nuova fase della storia, in cui le donne palestinesi vogliono combattere e morire come martiri, come fanno gli uomini e i ragazzi. Questo è un dono della grazia di Allah. Ma nel contempo, le donne non hanno un’organizzazione militare del movimento islamico. Quando un’organizzazione del genere nascerà, sarà possibile discutere il reclutamento su vasta scala delle donne». Marina Morpurgo