Federico Rampini la Repubblica, 20/02/2002, 20 febbraio 2002
Se gli americani si tengono i soldi in tasca, i prezzi scendono ma l’economia si ferma, la Repubblica, mercoledì 20 febbraio 2002 Sette autorevoli economisti europei firmano insieme un appello alla Banca centrale, allarmati perché «la Germania è sull’orlo della deflazione»: i prezzi ufficialmente crescono appena dell’1 per cento, in realtà forse sono già sottozero
Se gli americani si tengono i soldi in tasca, i prezzi scendono ma l’economia si ferma, la Repubblica, mercoledì 20 febbraio 2002 Sette autorevoli economisti europei firmano insieme un appello alla Banca centrale, allarmati perché «la Germania è sull’orlo della deflazione»: i prezzi ufficialmente crescono appena dell’1 per cento, in realtà forse sono già sottozero. Ricompare sugli schermi radar dell’economia mondiale il pericolo della grande ”D”. In Italia e in tutto l’Occidente ben tre generazioni non l’hanno mai vissuta sulla propria pelle. La memoria deve risalire agli Anni Trenta: la caduta generalizzata dei prezzi fu l’altra faccia della depressione; dopo il crack di Wall Street del 1929 l’economia ci mise otto anni a recuperare e nel punto più basso (1933) i disoccupati erano il 25 per cento della popolazione attiva. Ma la deflazione non è un ricordo dei bisnonni in Giappone, lì è una realtà quotidiana da anni. Nel 2001 il contagio giapponese si è esteso in Asia. In Cina, Singapore, Hong Kong e Taiwan il livello generale dei prezzi è caduto. In Africa e in America latina i danni della deflazione infieriscono sui paesi più poveri, impoveriti dal crollo delle materie prime che sono le loro principali esportazioni. La disinflazione è virtuosa – e piace ai consumatori che si sentono più ricchi – quando è il frutto di innovazioni tecnologiche che consentono di sfornare nuovi prodotti a costi inferiori (questo è stato per anni un beneficio reale della New Economy). Si trasforma in una deflazione pericolosa quando è la spia di più gravi squilibri: per esempio un’alta capacità produttiva inutilizzata, fabbriche e macchinari e computer che girano al rallentatore o non girano affatto. Alcuni settori tecnologici sono già in questo stato, per esempio le telecomunicazioni che hanno investito capitali immensi nelle fibre ottiche e in tutto il pianeta riescono a usarne a stento il 2 per cento. L’industria dell’automobile negli Stati Uniti ha cercato di rimediare a questa ”sovraccapacità” produttiva con sconti che hanno raggiunto il 10 per cento su molti modelli: così ha dato il suo contributo alla deflazione; ma i consumatori hanno comprato solo finché duravano gli sconti, ora ne aspettano altri. In altri settori ribassi anche più consistenti non riescono a rianimare la voglia di spendere: tra il dicembre 2000 e il dicembre 2001 le vendite di personal computer sono crollate del 33 per cento. A gennaio i consumi americani sono scesi dello 0,2 per cento, quelli giapponesi del 4,4 e quelli tedeschi del 4,1. Questa debolezza della domanda è una delle cause di deflazione. Poi vengono l’impoverimento dei risparmiatori e la svalutazione della ”ricchezza reale” delle nazioni, provocati dalla caduta del valore delle aziende. La Borsa è un indicatore capriccioso e irrazionale ma è l’unico che abbiamo. Essa ci dice che in America solo lo scoppio della bolla di Internet ha bruciato 5.000 miliardi di dollari di valore azionario. Il fenomeno non riguarda solo Nasdaq e New Economy. Negli ultimi dodici mesi un italiano che possiede titoli Fiat ha perso il 44 per cento dei suoi risparmi, un azionista delle Generali ci ha rimesso il 30 per cento: questi sono nomi storici della nostra economia. La stessa caduta di valori deprime le aziende, congela la capacità di investire; le telecom che hanno comprato licenze per i telefonini della terza generazione, svenandosi alle aste pubbliche due anni fa, hanno investito in un’attività che oggi forse vale un terzo. Lo sgonfiamento della Borsa potrebbe ripetersi nel settore immobiliare, che in America finora ha resistito e ha salvaguardato in parte i risparmi delle famiglie. Ma adesso Manhattan ha l’11 per cento di uffici sfitti, Los Angeles il 17, a Dallas il 30 per cento dei grattacieli sono vuoti. La grande crisi giapponese cominciò così, dieci anni fa: prima venne giù la Borsa, poi il mercato immobiliare. Il brutto della deflazione è questo: se ci si convince che durerà, allora conviene non far nulla e tenersi i soldi liquidi, perché domani varranno più di oggi. Se tutti si comportano così l’economia si ferma. la ”trappola della liquidità” che Keynes scoprì negli Anni Trenta: quando si sviluppa quella sindrome molti rimedi diventano impotenti, per esempio non serve ridurre i tassi d’interesse (per quanto bassi non rilanciano gli investimenti). quello che succede in Giappone. L’economia americana per la sua flessibilità è agli antipodi di quella giapponese, quindi è improbabile che segua lo stesso declino. Ma alcuni elementi di deflazione sono in atto anche negli Stati Uniti. I prezzi al consumo sono saliti dell’1,6 per cento in 12 mesi, un minimo storico da quarant’anni. In alcuni mesi l’indice è già sceso in negativo. E molti esperti sostengono che le statistiche ufficiali trascurano l’incidenza degli sconti che ormai sono sistematici (i saldi post-natalizi sono cominciati ai primi di dicembre). Se i consumatori guadagnassero come prima, il loro potere d’acquisto si rivaluterebbe. Ma non è così. Molte aziende Usa nella recessione hanno congelato i salari, hanno cancellato le gratifiche di fine anno. Le stock options dei manager valgono meno. Ora i datori di lavoro per far quadrare i conti cominciano a tagliare anche la copertura sanitaria e i versamenti pensionistici. Un altro danno della deflazione è l’illusione monetaria creata dal basso costo del denaro. Con un tasso ufficiale della Federal Reserve sceso all’1,75 per cento, tutti gli interessi sono calati. I prestiti delle banche o delle carte di credito sembrano ”regalati”. Risultato: la gente si indebita ancora di più, aggravando uno squilibrio finanziario drammatico. La famiglia media americana ormai deve destinare il 14 per cento del suo reddito solo per rimborsare interessi correnti (mutuo escluso). I debiti di molte imprese sono insostenibili e Wall Street teme nuove bancarotte dopo Enron. Non è un problema solo americano, anche i debiti giapponesi e perfino tedeschi sono saliti a livelli di guardia. Mentre un’inflazione alta aiuta i debitori, perché riduce il valore reale dei loro debiti, con la deflazione succede l’opposto: per quanto sia basso l’interesse, cresce il valore reale dei debiti e chi più ne ha più diventa povero. Questa regola tra l’altro si applica all’America come nazione. Il boom americano degli Anni Novanta è stato finanziato dall’afflusso di capitali stranieri. Gli Stati Uniti hanno importato più di quanto esportavano. Hanno accumulato debiti con il resto del mondo per 2,5 milioni di miliardi di dollari. In un clima deflattivo quel debito diventa sempre più costoso. A meno di un improvviso indebolimento del dollaro, che però destabilizzerebbe l’economia mondiale. Non solo noi cittadini abbiamo perso da tre generazioni la memoria storica dei danni della deflazione. Dagli Anni Settanta anche molte banche centrali si sono abituate ad avere un solo nemico, l’inflazione. Al punto che tengono i cannoni puntati solo in quella direzione, anche quando il nemico non c’è più. L’allarmato richiamo dei sette esperti (contenuto nel primo rapporto annuo dello ”European Economic Advisory Group”) è rivolto esplicitamente alla Banca centrale europea. Gli economisti ricordano all’autorità monetaria di Francoforte che «la deflazione è nociva per numerosi motivi» e la ammoniscono a «evitare politiche che spingono in quella direzione zone importanti dell’Unione». Quel pericolo lo ha intuito per primo il banchiere centrale degli Stati Uniti, Alan Greenspan. Il premio Nobel dell’economia Milton Friedman (il padre del monetarismo) sottolinea che oltre a tagliare ferocemente i tassi d’interesse, la Federal Reserve sotto la guida di Greenspan ha fatto un’altra operazione, assai meno nota: ha inondato l’economia americana di liquidità con una espansione del 10 per cento della massa monetaria. Anche se Greenspan non lo ammetterebbe mai, questo è un chiaro tentativo di fabbricare inflazione, per ridurre il peso reale dei debiti e sconfiggere lo spettro della grande ”D”. Greenspan evidentemente sa da che parte viene il pericolo maggiore, in questa fase. Conviene augurargli successo. Federico Rampini