Francesco Sisci La Stampa, 11/02/2002, 11 febbraio 2002
Hu sarà il capo della Cina, però nessuno sa chi è, La Stampa, lunedì 11 febbraio 2002 Pechino. Tutto accadrà nel suo bemin’ nian, l’anno dell’oroscopo cinese in cui è nato, un momento pieno di rischi ma anche di opportunità: l’anno del cavallo
Hu sarà il capo della Cina, però nessuno sa chi è, La Stampa, lunedì 11 febbraio 2002 Pechino. Tutto accadrà nel suo bemin’ nian, l’anno dell’oroscopo cinese in cui è nato, un momento pieno di rischi ma anche di opportunità: l’anno del cavallo. A sessant’anni, il compleanno più importante della vita di un cinese, Hu Jintao prenderà il potere al sedicesimo congresso del partito comunista che si terrà quest’autunno. Allora i circa tremila delegati voteranno e tutto è già predisposto. Hu è già vice presidente dello Stato, vice presidente della potente commissione militare e presidente della scuola centrale di partito e dovrebbe quindi salire di un altro gradino ai vertici del potere. Potrebbe anche diventare Presidente della Repubblica Popolare. Ma tutte le scale del potere sono sdrucciolevoli, e quelle cinesi non fanno eccezione, anzi. Se l’ascesa di Hu è certa, meno certa è la discesa degli attuali uomini forti. Non è chiaro fino a che punto Jiang Zemin, attuale presidente, si ritirerà completamente dalla vita politica. possibile che infatti continui ad esercitare qualche influenza, anche per garantire ulteriormente questo che potrebbe essere il primo passaggio morbido di potere della storia del PC cinese. Mao infatti fece fuori, letteralmente, almeno due dei suoi eredi designati, Liu Shaoqi prima e Lin Biao dopo, e l’uomo su cui cadde la sua ultima scelta, Hua Guofeng, durò lo spazio di un mattino, sotto la pressione dei militari che riportarono al potere Deng Xiaoping. Neanche la successione di Deng fu facile. La sua prima scelta fu Hu Yaobang che cadde alla fine del 1986 e morì di crepacuore nel 1989. Quella morte trascinò nella disgrazia anche la seconda scelta di Deng, Zhao Ziyang, deposto dopo i fatti di Tienanmen. Jiang Zemin, quando fu scelto nel 1989 appunto, sembrava un tappabuchi, destinato a cadere come una foglia d’autunno. Invece al congresso del 1992 assunse tutto il potere, e fu allora che l’allora cinquantenne Hu Jintao fu scelto come erede al trono. Che dieci anni dopo quindi Hu riesca effettivamente ad arrivare al potere senza sommosse, come la rivoluzione culturale degli anni 60 o le dimostrazioni di Tiananmen, è già un risultato storico. Jiang è stato così capace di navigare tra mille rapide e cascate, portare la Cina nell’organizzazione del commercio mondiale, WTO, e assicurare la successione a Hu. Hu dal canto suo è rimasto per dieci anni in seconda fila, attento a costruire consenso intorno alla sua persona nei mille corridoi della politica cinese, cercando di non offendere nessuno e rafforzare la sua squadra. Ci è riuscito così bene che oggi la più grave accusa che gli viene mossa è quella di non avere una personalità. O meglio non si sa se Hu la personalità ce l’ha e la nasconde. Certo, quando tra il 1996 e il 1997 cominciò a coagularsi il partito democratico della Cina, che poteva diventare un nucleo di opposizione nel Paese, pare ci sia stata una riunione ai massimi livelli. Allora, narrano le leggende, Jiang non si espresse lasciando aperta la discussione. Al momento di votare per la legalizzazione o meno del partito Hu votò a favore, anche se quasi tutti gli altri furono contro. Certo, nella sua provincia natale, il povero Anhui, si gonfiano di orgoglio al pensiero che un loro figlio possa diventare capo di tutta la Cina. Nel capoluogo provinciale, Hefei, il centro è occupato da un monumentale parco dedicato a Bao Gong, un antico funzionario dello Stato diventato oggi l’icona del mandarino incorruttibile. Hu, giurano, è come Bao Gong, un uomo tutto di un pezzo. Una figlia di Hu pare che oggi studi in America, sotto falso nome, per non essere riconosciuta, e con una borsa di studio ottenuta solo grazie al suo merito. Il suo unico ”vizio” pare sia una passione per il tè, di cui è grande conoscitore. Nell’Anhui non ci sono le storie di mafie che popolano altre province cinesi. Qui la campagna si stende verde e povera, tiranneggiata delle inondazioni del Fiume Azzurro che ogni anno porta via migliaia di case e lascia una terra sì fertile, ma che vale meno ogni anno che passa. Da qui a milioni fuggono per emigrare nelle città in cerca di una vita migliore. Da uno di questi distretti, antichi e poveri, Jixi, partì il diciottenne Hu nel 1960 alla volta di Pechino dove riuscì a superare il difficilissimo esame per entrare all’università Qinghua, la migliore del Paese per le materie scientifiche. A Jixi, vivono ancora i suoi parenti, ma Hu non ci torna spesso per evitare di soccombere alle varie richieste di favori. Del resto al suo villaggio aveva voltato completamente le spalle nel 1965, quando si laurea in ingegneria idraulica. Era entrato nel partito solo un anno prima. La sua carriera politica, dopo un inizio nel ministero delle risorse idriche, si svolse poi quasi tutta nella lega giovanile del partito, dove presto venne notato e protetto dall’allora segretario del partito, Hu Yaobang, che lo presentò a sua volta a Deng. Prima di approdare nel sancta sanctorum del potere cinese, però Hu Jintao trascorre una decina di anni in provincia, tutto in sedi povere e molto disagiate, anche per i bassi standard cinesi. Prima è nell’arido Gansu, a nord del Fiume Giallo, poi va a sud nel Guizhou, pieno di montagne e di minoranze nazionali. Infine gli tocca il compito più difficile di tutti: nel 1985 diventa segretario del partito in Tibet. Questa esperienza pare convinca gli allora leader di Pechino a riportarlo nella capitale. Artista dei fini equilibrismi di potere, ma non pavido davanti alle decisioni difficili, in questi anni Hu ha fatto della scuola di partito la sua roccaforte. Da qui infatti passano tutti i quadri che devono essere promossi, da quelle aule passano tutti gli alti funzionari del governo. Qui Hu ha insegnato con determinazione la nuova teoria politica di Jiang Zemin, che porta il partito oltre l’identificazione con il proletariato e vuole far girare il Paese intorno ai nuovi ceti produttivi. E proprio in virtù di questa nuova teoria Hu apre le porte della scuola invitando per la prima volta una serie di personalità straniere a dare lezioni ai nuovi leader cinesi. Per loro le lezioni poi non si concentrano sulla storia ufficiale del partito ma anche su principi di management che dovrebbero aiutare i dirigenti a controllare province che spesso hanno popolazioni più grandi dell’Italia. Giovanile, oltre che giovane, affabile, composto, nelle settimane scorse ha fatto il suo primo viaggio in Europa, dove ha toccato la Russia, la Germania, la Francia, l’Inghilterra, la Spagna ma non l’Italia. Qui non ha lasciato profonda impressione di sé, attento com’era ad apparire di meno invece che di più. La sfida più difficile viene però solo ora. Hu, come tanti alti funzionari cinesi prima di lui, viene dalle campagne, in America sarebbe un self made man, come Bill Clinton, un uomo che per tutta la vita ha solo studiato e lavorato. Oggi una infinità di cose potrebbero andare storte. Il mondo e il Paese si aspettano grandi azioni da lui, e lui deve per prima cosa mantenere un alto tasso di crescita economica, aprire alle imprese private, ma anche assicurare che i disoccupati, espulsi dalle industrie rese più efficienti, non invadano le strade. Deve lanciare le piccole e medie imprese che potrebbero fare così tanto per la Cina, ma che sono sconosciute alle banche. Deve aprire il mercato interno al WTO, ma anche proteggere le industrie nazionali, combattere le mafie e la corruzione, ma anche far crescere le nuove imprese non statali nate nell’acqua torbida di una legalità ancora in fieri. E poi deve promuovere la tanto agognata riforma politica mantenendo la preziosa stabilità politica, premessa per lo sviluppo del Paese. Il tutto deve poi avviarsi nel difficile bemin’ nian. Le vecchie superstizioni qui raccomandano una cintura di stoffa rossa annodata alla vita, ma Hu sarà scaramantico in questo suo sessantesimo difficile anno? Francesco Sisci