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 2006  marzo 21 Martedì calendario

POMODORO

POMODORO Arnaldo Morciano di Romagna 23 giugno 1926. Scultore. «[...] uno degli artisti italiani più famosi nel mondo: le sue monumentali sculture in bronzo sono nelle piazze delle nostre città, ma anche a Copenaghen, Mosca, Tokio, New York, Los Angeles... Eppure semnra di vederlo quel ragazzino [...] con i capelli rossi che rendevano difficile chiamarsi pomodoro, una madre sarta - energica e antifascista - che si affannava a mandare avanti la famiglia, e un padre che amava troppo l’alcol e i cavalli (’papà? un vitellone felliniano, morto di cirrosi epatica quando io avevo 20 anni”). Quel ragazzino, che avrebbe voluto iscriversi all’Accademia ma studiò da geometra perché in famiglia c’era bisogno di lavorare, aveva un unico sogno: evadere dalla provincia angusta. ”E per me, cresciuto sui narratori d’oltreoceano tradotti da Pavese e Vittorini, il sogno era quello americano” [...] dopo un primo impiego nel Genio Civile, giunse all’arte attraverso la scenografia. ”La folgorazione avvenne negli Anni 60, davanti alle sculture di Brancusi [...] Guardavo la purezza di quelle forme, il volto di un bambino che nasce da accenni di bocca e di naso scolpiti in un uovo perfetto... A un tratto, ho immaginato dei tarli corrodere quella perfezione. E ho pensato a Fontana, al suo lacerare la tela come supremo gesto di protesta. Da allora ho lavorato sulle forme geometriche solide, la sfera, il cubo, il cilindro, la piramide, strappando la loro superficie impeccabile [...] Ho tratto mille idee dalle invenzioni leonardesche e tengo sempre sul tavolino le riproduzioni dei suoi codici” [...] Nei primi anni Arnaldo lavorava mnolto spesso con il fratello Giò Pomodoro, un grande della scultura monumentale, poi i due presero strade incomunicabili [...] ”La mia religione è nell’etica, non credo nell’aldilà. E la morte mi fa paura. Ne ho ricordi tremendi, che risalgono all’infanzia: vivendo in un paese dove si conoscevano tutti, si andava al cimitero quasi ogni settimana. E quell’odore nauseabondo dei fiori [...] Io sono come le mie sculture: con superfici levigate, ma anche lacerazioni che svelano un interno complesso, intricato. Mi sento così quando non posso dire quel che penso, perché se esprimessi le mie idee, sarei perdente. E allora mantengo un equilibrio che può sembrare poco sincero, ma non lo è... E ne soffro terribilmente [...]”» (Antonella Barina, ”Il Venerdì” 31/1/1997).