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 2002  marzo 07 Giovedì calendario

La demagogia dell’opposizione all’opposizione, Panorama, 7 marzo 2002 Il mestiere del Pci era questo: domare la società civile, organizzarla secondo le leggi della politica, rappresentarla in Parlamento nell’ambito della vecchia cultura costituzionale consociativa

La demagogia dell’opposizione all’opposizione, Panorama, 7 marzo 2002 Il mestiere del Pci era questo: domare la società civile, organizzarla secondo le leggi della politica, rappresentarla in Parlamento nell’ambito della vecchia cultura costituzionale consociativa. Il mestiere degli eredi del Pci, a partire dagli anni 90 (ma il fenomeno era già cominciato con Enrico Berlinguer), è l’opposto: inseguire la società civile, civettare con le sue inquietudini disordinate, lasciarsi plasmare dai suoi fremiti e dalle sue passioni, farsene portavoce in Parlamento o al governo nello spirito della demagogia e della propaganda. Brutto mestiere, che lascia spazio a ex giustizieri allo sbando, a professori già fuorilegge improvvisatisi sceriffi (la battuta è di Lanfranco Pace), a magistrati rancorosi che non amano la politica nella legalità ma fanno della legalità una politica. Risultato: una crisi grottesca della sinistra, l’incomunicabilità nelle istituzioni e il funzionamento imperfetto, zoppo, della democrazia dell’alternanza. Il mestiere del Pci era relativamente facile. C’era una classe cosiddetta generale, gli operai e i quadri dell’industria, a cui tutto era ricondotto. C’erano una cultura sociale stabile e uno statuto di relativa autonomia della cultura, che fu la leva per diffondere il mito comunista nell’intellighenzia. C’era una tradizione politica e sindacale unita allo sviluppo capitalistico da relazioni funzionali, di conoscenza e contiguità. Il Pci era parte organica della società italiana, nonostante le fedeltà sovietiche e il disegno generale internazionalista. Non poteva partecipare al governo del Paese, negli anni della guerra fredda, anche perché a suo modo quell’opposizione era un elemento essenziale della stabilità istituzionale. Questo assetto patologico generò giganteschi equivoci storici, nutrì di ideologia grandi menzogne della seconda parte del Novecento, introdusse elementi illiberali nel sistema politico e nello stato di diritto, ma l’Italia sopravvisse alla propria anomalia e se la cavò. Solo pensando a questa storia si capisce il moto di istintiva simpatia che ha pervaso i media e l’opinione pubblica quando Massimo D’Alema, per una volta, invece di lisciare il pelo alla folla di Firenze, le ha fatto venire l’orticaria spiegando che in Italia non c’è un regime e che, per quanto la democrazia possa essere logorata, governa chi ha più voti e ha più voti chi è stato più capace di costruire alleanze e consenso. Una cosa così elementare, semplice, schietta e a suo modo coraggiosa poteva dirla, a sinistra, solo un ex dirigente del Pci. Fa parte di tutta una tradizione linguistica di cui non sono nemmeno vagamente a conoscenza i ragazzi educati nella bambagia e nei luoghi comuni dei girotondi e delle fiaccolate per Mani pulite. Un padre severo ha improvvisamente alzato la testa e chiesto bruscamente ai suoi figli e figliocci di far cessare la pipinara. Purtroppo è un messaggio fuori tempo. Bisognava pensarci prima. Non si riorganizza in un giorno, e con un solo atto di lealtà verso se stessi, quel che per oltre un decennio si è lasciato sfarinare nel ludibrio. La classe generale non c’era più dalla fine degli anni 70 almeno. Tra gli anni 80 e l’inizio del decennio trascorso, con il tentativo di Bettino Craxi di fondare un socialismo riformista e liberale capace di egemonia sull’insieme della sinistra in Italia, i comunisti, poi ex comunisti, hanno perso l’occasione storica. Dovevano passare all’organizzazione di un soggetto politico diverso dal vecchio Pci, in aperta rottura con la sua tradizione illiberale, senza però perdere la compattezza, la sobrietà e la sistematicità dell’agire politico consapevole. Il mutamento sociologico, dalla classe alla moltitudine (per dirla con il professor Toni Negri), doveva essere padroneggiato intellettualmente e politicamente, non accompagnato servilmente con piccole tattiche da imbonitori e da apprendisti stregoni. Bisognava mettere le regole, quelle che valgono per tutti e non quelle che servono a incarcerare o mettere fuori gioco gli avversari, al centro di una rivoluzione delle forme della politica di sinistra, e cercare su questo un compromesso accettabile, onorevole, con la tradizione socialista e laica da sempre minoritaria nella sinistra italiana. Fu fatto esattamente il contrario, e questi processi in piazza e girotondi e circhi equestri ne sono la conseguenza. Ora avremmo bisogno tutti, per primo chi governa, di una opposizione tenace ma seria, vivace ma autorevole, in grado di esprimere un’alternativa possibile; e invece abbiamo l’opposizione all’opposizione, in una spirale demagogica di cui restano vittime le istituzioni rappresentative, dove la maggioranza fa ormai tutto in solitario e minoranze rumorose e senza guida strepitano e ballano di fronte a un’Europa attonita, in cui qualche marpione dell’establishment economico e mediatico, e qualche uomo di governo particolarmente cinico, alimentano la canaille per interessi di bottega. La piazza e l’odio per il governo diventano così la droga che compensa la fine della politica come lotta e negoziato, come analisi fattuale e progetto possibile. Non sono cose che si risolvono né con un’assemblea a Firenze né con un giro di conferenze in America: ci vogliono fatica, impegno, disinteresse personale, dedizione a un’idea appassionata e rigorosa della politica, un po’ di dolore. Giuliano Ferrara