Varie, 21 marzo 2006
S. YIZHAR
(Yizhar Smilansky) Rehovot (Israele) 27 settembre 1916. Scrittore. Ha cominciato a scrivere negli anni Trenta, nella Palestina allora sotto mandato britannico. Durante la Guerra di indipendenza ha partecipato ai combattimenti nel Negev, che costituiscono lo spunto di molti suoi racconti. stato docente all’Università di Tel Aviv, scrive anche libri per ragazzi e saggi • «’C’è una parte di Yizhar in ogni autore che è venuto dopo di lui”, sostiene Amos Oz. [...] La rabbia del vento [...] quando [...] uscì in Israele, nel 1949, a causa del suo argomento – lo sgombero, da parte dell’esercito, di un villaggio palestinese e il trasferimento dei suoi abitanti al di là del confine – suscitò polemiche enormi. [...] per lungo tempo [...] inserito nei programmi scolastici di lettura, prima di esserne escluso. Raccontava il dissidio interiore di uno dei soldati addetti allo sgombero: e, va detto, i ragazzi ebrei lo leggevano negli stessi anni in cui, nelle scuole palestinesi, venivano consegnati agli studenti libri di testo con carte geografiche dalle quali Israele era escluso. Se poi il libro fu tolto dai programmi scolastici’mentre centinaia di migliaia di arabi prendevano la cittadinanza israeliana: va detto anche questo’ quello è un peccato del quale il tempo e la Storia avrebbero fatto giustizia in una sorta di drammatico contrappasso. Chi avrebbe mai immaginato, infatti, che i figli o i nipoti di quegli stessi soldati che sgomberavano il villaggio palestinese, sarebbero stati costretti, mezzo secolo e oltre più tardi, a usare, dopo la persuasione, la forza per sgomberare dalla Striscia di Gaza villaggi ebrei da abitanti ebrei che in questo sgombero (considerato salutare dalla maggioranza della popolazione israeliana) vedevano un sopruso? Il romanzo di Yizhar, bellissimo, ha un crescendo emotivo che mozza il fiato. Siamo nel 1949, un anno dopo la guerra di difesa e la fondazione dello Stato di Israele’ non riconosciuto, peraltro, da nessuno dei suoi confinanti. una mattinata invernale: splendida, come può esserlo una mattinata invernale in Israele. C’è stata la pioggia. Ora, la temperatura è mite, l’erba brilla. Lo sguardo – sembra di stare nella Cognizione del dolore – si perde lontano: verso limiti che si aprono e si chiudono, campi arati e verdeggianti, frutteti fitti di ombre, colli azzurrini. l’antica terra biblica dei deserti sassosi, profumata di erbe selvatiche, cui ha posto mano l’amorevole cura dell’uomo. Di fronte ai soldati si erge il villaggio palestinese. L’ordine è il seguente: ”Radunare gli abitanti a partire da tal punto (vedi mappa allegata) fino al punto tal altro (vedi stessa mappa), caricarli sui camion e trasferirli oltre le nostre linee, far esplodere le case di pietra e bruciare le capanne d’argilla, arrestare i giovani e i sospetti, ripulire il territorio da forze ostili”. Il tutto’è specificato’ con buone maniere e civile moderatezza, segno dello spirito dei tempi, di buona educazione e forse anche della grande anima ebraica. L’ordine è legittimo, se vogliamo: quello, dopo la proclamazione dello Stato e una guerra vinta, è territorio di Israele. Perché, allora, dinnanzi al piccolo villaggio, muto come un sepolcro, l’animo del soldato che racconta è invaso dallo sgomento e dal dubbio? Che senso hanno espressioni come ”buone maniere”, ”civile moderatezza”, se quello che viene chiesto ai soldati’ancorché giustificato dalla logica di chi ha vinto e pensa di essere padrone all’interno dei suoi confini – consiste nel costringere uomini e donne, vecchi e bambini, ad abbandonare le case che portano i segni della loro esistenza quotidiana, il luogo nel quale sono nati e hanno vissuto? Gli ordini sono ordini, però: bisogna rispettarli. Così, i giovani militari israeliani vanno avanti: qualche colpo d’avvertimento, l’ingresso nel villaggio, le case che saltano in aria. E questa è una sequenza che è difficile appoggiare nel tempo. Compaiono, dapprima, ombre di individui lontani che, terrorizzati dagli spari, si gettano al suolo com emorti, si rialzano, fuggono. Quindi, i soldati entrano nel villaggio abbandonato: e vedono, con i propri occhi, ”frammenti di saggezza femminile nel governo della casa... utensili tenuti da parte secondo la necessità o il caso”. Poi, incontrano due vecchie decrepite: abbandonate nell’abbandono. Poi, una madre disperata con un marmocchio al seno. Poi un uomo distrutto dalla paura, che sbuca da un muro implorando e vomita per la paura, e ride, piange, pulisce il suo vomito per scusarsi. Poi un gruppo di ciechi che avanzano tenendosi per mano, porgendo l’orecchio ansioso all’incognita del proprio futuro. Poi dei vecchi dignitosi e tristi; donne che nemmeno per un istante smettono il loro lamento... E, intanto, le case saltano; la disperazione aumenta; provenendo da più punti diversi, gli arabi vengono riuniti, e si forma un drappello. E questo drappello marcia. E quelli che marciano si ignorano, pensano solo al loro destino: sembrano «un gregge spaventato, silenzioso e sospirante», ricordano altri esuli della Bibbia, altri esuli ebrei di un tempo recente. Mentre la madre- leonessa col bambino in collo ha l’odio negli occhi... E, di colpo, il soldato che racconta esplode, ha l’impressione di vivere in un incubo che ha le sue radici in un passato che ha dentro, in un presente che promette solo dolore per il futuro, e dice a un suo compagno: ”Ma è proprio necessario mandarli via? Che male possono fare? I giovani sono scappati... che bisogno c’è?”. Poi, l’operazione finisce; i soldati sgomberano; sul villaggio deserto cala il silenzio.Yizhar scrive che quando quel silenzio sarebbe stato ancora più perfetto, ”allora Dio sarebbe sceso nella valle e vi avrebbe vagato per vedere se il grido giunto fino a lui era così grande”. [...]» (’Corriere della Sera” 21/3/2006).