Varie, 21 marzo 2006
PAGLIARANI
PAGLIARANI Elio Viserba 25 maggio 1927. Poeta. «[...] ogni incontro con Elio Pagliarani diventa un recital di poesia. [...] Riempie l’aria con il suono della voce roca, memore di chissà quante fumate di pipa. Una vocalità intrisa dal forte accento romagnolo delle origini [...] che gli anni trascorsi a Milano tra il 1945 e il 1960 [...] a Roma - ”una rinascita” - dal 1961 ad oggi, mai hanno stemperato in qualche idioletto metèco, bastardo. Recita modulando i fiati, le interruzioni, i toni forti e i toni sommessi, e senti in lui la vocazione dei cantastorie della sua terra, una voluttà orale nel trasmettere parole in prosa o in poesia. Il braccio sinistro taglia circolarmente l’aria, va su e giù per scandire accelerazioni e rallenta menti. Viene davvero voglia di imitarla quella gestualità, di mimarlo quell’imprinting orale. Un vero contagio per il corpo e la mente del lettore che si accinga ad attraversare - lo conosca o meno - il cammino poetico di Pagliarani [...] Cortellessa scrive: ”Nessuna poesia scalcia quanto questa”. E così fotografa l’intera opera, anche nelle zone meno vivaci. Pagliarani recita versi, non solo i suoi, come se ballasse con loro: il gioco della voce e delle parole, una danza di figure retoriche per farne avvertire i calci amorosi, sociali, politici, letterari, ideologici. ”Io grido quando scrivo”, afferma questo facitore di versi (fra i titoli più noti La ragazza Carla, Lezione di fisica, La ballata di Rudi) che ha saputo fondere nel suo sperimentalismo - un perfetto ossimoro estetico - le ragioni della tradizione e le ragioni dell´’avanguardia. Favorevole alla diffusione di massa della poesia, non si unisce al coro di quanti ritengono una calamità festival letterari, raduni di poeti, pubbliche letture. Anzi, potrebbe accettare un’idea di H. M. Enzensberger: ”non esiste un mercato della poesia. La poesia è l’unico prodotto dell´attività spirituale umana che è immune da ogni tentativo di mercificazione. Sotto questa luce la sua lamentata invendibilità mi appare come un misterioso privilegio”. Ma se il gusto della performance appare connaturato all’indole di Pagliarani, il verso lungo ricorrente nel tessuto metrico ne è quasi la proiezione materiale sullo schermo mentale del lettore. Con la forza esplosiva di una ”santabarbara” - eloquente sinonimo di ”polveriera” adoperato da Cortellessa - brillano citazioni estratte dai gerghi della fisica, dell’economia, della psicoanalisi, gli ingorghi stilistici, gli innesti tra eloquio alto e basso, ben dominati da questo ”moderno Cagliostro del linguaggio” (Giovanni Giudici dixit): a dimostrazione di un processo comunicativo amalgamato dalla tensione conoscitiva che ispira il poeta. Gli avrà suggerito la fusione delle cosiddette ”due culture”, la umanistica e la scientifica, secondo gli auspici di C. P. Snow? ” vero”, risponde Pagliarani, ”non ho mai creduto che per fare poesia esistano parole privilegiate perché non esistono parole poetiche a priori”. Questo universo verbale, non estraneo alla lezione di Ezra Pound (’Mantenere in efficienza il linguaggio”), alla passione addirittura etica per il plurilinguismo e le sue deformazioni (C. E. Gadda e Gianfranco Contini docent), ha prodotto poesia apprezzata da un vasto e molteplice schieramento di critici: in parte illustrato da Cortellessa [...] il padre Giovanni, ”fiacarista, cioè vetturale o vetturino con carrozza e cavallo”, socialista dal 1913, ”aveva sedici anni”, mai iscritto al Fascio e quindi osteggiato dal regime, spesso andava a Rimini a comprare l’avena per il cavallo nella drogheria di Fellini, il padre di Federico, ”socialista anche lui e assieme parlavano affannosamente di politica”; a Milano, metà anni Cinquanta, l’insegnamento nelle scuole private ai bambini delle elementari, ”una esperienza bellissima”; nella redazione milanese dell’Avanti! arrivava un ragazzone lungo e allampanato, nenniano, sfotteva i redattori dell’estrema sinistra socialista, si chiamava Bettino Craxi, e al filonenniano redattore Pagliarani proprio per questo atteggiamento irridente gli stava antipatico; a Roma, primi anni Sessanta, incaricato dal direttore, chiede a Giorgio Bassani di collaborare al quotidiano del Psi, e lo scrittore - all’inizio un po´ freddo e sussiegoso - s’illumina quando Pagliarani gli dice la cifra del compenso più alta della norma [...]» (Enzo Golino, ”la Repubblica” 21/3/2006).