Varie, 21 marzo 2006
MATISYAHU
(Matthew Miller) West Chester (Stati Uniti) 30 giugno 1979. Cantante • «Il suo primo album Live at Stubb’s ha venduto 500 mila copie [...] nuovo volto della musica reggae è [...] un ebreo ortodosso [...] premiato dalle critiche del magazine ”Rolling Stone” come dallo share di ascolti dei talk show serali che lo ospitano. Il suo maggiore successo è King Without Crown, arrivato a posizionarsi al settimo posto della classifica di tutte le canzoni rock. Cappello nero a falde larghe, barba lunga e vestito nero, Matisyahu ha il look degli ebrei ortodossi e in particolare del gruppo hassidico Chabad-Lubavitch il cui ultimo rebbe Menachem Mendel Schneerson sosteneva la necessità di usare i moderni mezzi di comunicazione per diffondere il messaggio di fede. Il caso senza precedenti di un rapper hassid tiene banco sui blog ma solleva anche polemiche nella comunità afroamericana. E a dargli voce è stato il ”New York Times” pubblicando un articolo al vetriolo del proprio critico musicale Kelefa Sanneh. ”Il cappello nero di Matisyahu serve ad oscurare qualcosa di molto ovvio: la sua razza. un cantante reggae bianco con una band tutta bianca che suona per un pubblico quasi esclusivamente bianco” ha scritto la Senneh per accusare il hasid Lubavitch di ”appropriazione culturale” di un tipo di musica espressione dell’identità afroamericana. [...] Matisyahu, in un’intervisa a ”Rolling Stone”, ha affermato che ”nel linguaggio di Bob Marley vi sono numerose ed importanti citazioni prese dalla Torà”. Nel tentativo di placare gli animi, separando musica da etnicità, è sceso in campo Murray Forman, docente alla Northeastern University nonché autore di numerosi studi sulla musica reggae e hip-hop, suggerendo che ”ognuno arriva al reggae portando la propria cultura, Matisyahu dall’’ebraismo come l’irlandese Snow dal cattolicesimo”. A ciò bisogna aggiungere che l’industria musicale ha prudentemente classificato le musiche del cantante hassidico non come ”raggae” ma ”alternative”, a differenza di quanto avviene con le canzoni del più popolare cantante rapper bianco: Eminem» (Maurizio Molinari, ”La Stampa” 21/3/2006). «[...] curioso ragazzo che porta la kippah, parla della Torah e canta sul ritmo della musica giamaicana. In poche settimane la sua foto è comparsa su tutti i giornali, le radio hanno iniziato a trasmettere la sua musica e Matisyahu si è trasformato in una piccola star. ”Ho sempre amato la musica”, ha raccontato in una intervista, ”quando ero piccolo mi vestivo come Michael Jackson e cantavo le sue canzoni, poi ho cambiato gusti e ho iniziato ad amare il reggae. Non sapevo esattamente cosa volevo finchè non ho visto i video di Bob Marley e ho pensato ’Questo è quello che voglio fare’. Mi sono fatto crescere i capelli, ho iniziato a fare beatboxing con gli amici a scuola, poi ho messo su la mia prima band. In seguito sono andato alla Yeshiva e ho iniziato a diventare religioso. C’era un rabbino Lubavitch a New York, al Washington Square Park, che mi ha introdotto ai rituali hassidici, che mi chiedeva ogni tanto di cantare o rappare qualcosa per le cerimonie e pian piano, con l’aiuto di un mio amico musicista, ho iniziato a fare piccoli concerti nella comunità religiosa, fino a quando non ho organizzato una vera e propria band. Da lì tutto è andato velocemente, mi hanno chiamato per un concerto, poi un altro, e via via tutto è diventato più grande, sono arrivate le radio, le televisioni, i festival e il successo”. [...] Le canzoni parlano di temi religiosi e sociali, ma Matisyahu non vuole parlare solo ai suoi fratelli di fede: ”Non punto all’attenzione della comunità ebraica, mi interessa il grande pubblico, quello da cui vengo anche io. Ho vissuto 23 anni con uno stile di vita non religioso, andando ai concerti dei Phish e ascoltando reggae e hip-hop”. Di certo non deve essere facile mettere d’accordo le regole della sua fede e la vita ”on the road”: ”Beh, non ho lo stile di vita classico delle rockstar, non suoniamo durante Sabbath, cerco di essere responsabile, prendo molto seriamente quello che faccio. Sono religioso e la mia prospettiva è quella delineata dal Vecchio Testamento. Ma allo stesso tempo ho lo spirito di un ribelle, mi piace rompere lo stereotipo per il quale chi è religioso ha una famiglia e fa una vita normale. Io penso che puoi essere religioso e vivere in un tour bus con tua moglie, tuo figlio e la tua band, fatta di sei ragazzi non religiosi o non ebrei, suonando dal vivo tutte le notti. Non c’è contraddizione, può funzionare, funziona”» (Ernesto Assante, ”la Repubblica” 21/372006).