Masolino d’Amico La Stampa, 27/02/2002, 27 febbraio 2002
Mitchum fece 40 film con lo stesso impermeabile, La Stampa, mercoledì 27 febbraio 2002 «MITCHUM! Mitchum!» diceva Marcello Mastroianni a Paolo Panelli dalla faccia di gomma, che gli chiedeva consigli su come si recita al cinema
Mitchum fece 40 film con lo stesso impermeabile, La Stampa, mercoledì 27 febbraio 2002 «MITCHUM! Mitchum!» diceva Marcello Mastroianni a Paolo Panelli dalla faccia di gomma, che gli chiedeva consigli su come si recita al cinema. Per chi se ne intendeva, la leggendaria impassibilità del famoso attore era il non plus ultra dell’economia e dell’efficacia sul grande schermo, anche se c’era chi la scambiava per sonnolenza quando non addirittura per indifferenza. Tipicamente, Mitchum stesso amava confermare queste voci, dichiarando di certi suoi film: «Li facevo con gli occhi chiusi, mi dipingevano le pupille sulle palpebre». Amava anche far credere, come poi talvolta il suo emulo Marcello, di ignorare del tutto la trama della storia in cui era impegnato; che le sue battute le imparava all’ultimo momento, quando il regista stava per far battere il ciak. La realtà era molto diversa. La monumentale biografia di Lee Server, appena uscita in America e in Inghilterra (Robert Mitchum: «Baby, I Don’t Care», Faber & Faber, pp. 590, 20 euro) contiene una filza interminabile di omaggi all’affidabilità dell’attore da parte di chiunque abbia lavorato con lui (e tra i registi molti furono i sommi, da Preminger a Minnelli, da Huston a Hawks). Comunque avesse passato la notte e qualunque quantitativo di alcol avesse tracannato, si poteva essere sicuri che sul set non ci sarebbero stati ritardi né difficoltà per colpa sua; e il suo apparente distacco nascondeva una partecipazione di qualità molto sottile. «Tanti attori non sanno ascoltare» disse per esempio Jacques Tourneur, che lo diresse in Le catene della colpa (1947). «Quando un loro partner gli sta parlando, pensano semplicemente, durante questo non ho niente da fare; cerchiamo di non farmi rubare la scena. Mitchum sa tacere e ascoltare una battuta di cinque minuti. Non lo perdi mai di vista e capisci che assimila quello che gli dicono, anche se non fa niente. così che si giudicano i bravi attori». Agli inizi della carriera, quando qualcuno pensò bene di promuoverlo dalle parti di comprimario nei western di serie B con Hopalong Cassidy - in seguito lui definì una bella vita anche quella: «Pranzo e cena gratis sul posto, cento dollari la settimana, e tutta la merda di cavallo che potevi portarti a casa» - fu affidato a una celebre insegnante, Lillian Burns, colei che dirozzò tra gli altri Janet Leigh e Lana Turner. Lei guardò qualche rullo di un filmetto con Mitchum, ebbe un breve colloquio col giovanotto, e lo mandò via dicendo che non aveva niente da insegnargli: «Fai esattamente quello che hai fatto finora». Robert Mitchum era diventato attore quasi per caso, anche se aveva una sorella maggiore che faceva dei numeri nei night. Da piccolo aveva conosciuto bene la depressione. Nel 1919, quando aveva appena due anni, suo padre era morto schiacciato tra due vagoni ferroviari del cantiere navale dove lavorava, a Charleston, Virginia. Era un ometto nervoso e attaccabrighe, un irlandese della Carolina del Sud, che durante il servizio militare nel Connecticut aveva sposato la bella figlia di un capitano di mare norvegese; rimasta vedova, costei tornò nel Connecticut, a sbarcare il lunario in un piccolo centro di campagna. A quattordici anni Robert lasciò la scuola e per quattro anni girò l’America in lungo e in largo facendo la vita del vagabondo, e finendo anche in galera; tornò definitivamente a casa con una ferita alla gamba che impiegò parecchio tempo a sanarsi. Dal girovagare appeso ai treni gli rimasero la passione per la marijuana, che allora si coltivava un po’ dappertutto ed era considerata il whisky dei poveri (lui ne ebbe sempre delle rigogliose piante in casa, e di una portava la foto nel portafogli); la capacità di cavarsela in una zuffa; l’odio per i poliziotti e la simpatia per chi sta sotto. Tutta la vita avrebbe sovvenzionato galeotti e accolto ex carcerati; una volta dei ceffi che gli stavano vendendo della droga lo riconobbero e festeggiarono come colui che aveva donato certe apprezzatissime attrezzature alla palestra del loro istituto di pena. Dopo gli anni errabondi, Mitchum decise di tentare la fortuna ad est, e si portò dietro, sposandola, Dorothy Spence, figlia di vicini di casa, della quale si era innamorato a diciott’anni, quando lei ne aveva tredici. Il matrimonio sarebbe durato fino alla sua morte nel 1997. Dorothy soffrì molto delle sue infedeltà, sparizioni e scandali, ma solo lei forse aveva saputo cogliere il sottofondo romantico in un uomo la cui dichiarazione d’amore era stata: «Resta con me, piccola, e scoreggerai nella seta». Per i primi tempi lo sposino si mantenne con lavori di fatica, anche combattendo come pugile finché non le prese sul serio da un professionista; ma fece anche del teatro, con una compagnia di semidilettanti. Poi cominciò a apparire nei western di cui sopra, quando per farsi assumere dichiarò mentendo di saper andare a cavallo (in seguito si sarebbe appassionato ai quadrupedi, ed ebbe anche successi come allevatore). E non si fermò più per oltre mezzo secolo di una attività il cui bilancio comprende circa centoventi film («quaranta», disse, esagerando, «con lo stesso impermeabile») più, in vecchiaia, la sterminata serie televisiva intitolata ”Venti di guerra”. Ultimo dei giganti di Hollywood specializzati nell’incarnare soprattutto se stessi, Mitchum fu più eclettico di altri, anche perché restò a lungo legato a un contratto-capestro che in cambio di uno stipendio settimanale gli toglieva ogni diritto di intervenire nella scelta dei progetti. Il mestiere lo padroneggiava, era molto intelligente, aveva un talento naturale, un fine orecchio per i dialetti e una grande passione per la lingua - fu un avido lettore e un compositore di poesie e brani musicali. Forse vergognandosi un po’ della facilità con cui guadagnava tanti soldi, di nuovo in questo simile a Mastroianni, ma con molta più violenza di lui, prese sempre le distanze dagli atteggiamenti di quei suoi colleghi che si prendevano troppo sul serio. Al giovane George Peppard che fresco dell’Actors Studio gli domandò se seguiva il metodo Stanislavski rispose «Io conosco solo il metodo Smirnoff». E quando in tarda età sentì Elia Kazan che per agevolare De Niro nella parte del superattivo protagonista degli Ultimi fuochi gli consigliava: «Mentre pronunci le tue battute cerca di pensare a qualcos’altro», commentò: «Io ho sempre fatto così». vero che si arrese davanti alla serietà con cui John Wayne interpretava il proprio personaggio anche nella vita, facendosi alzare il tetto dell’automobile per tenere in testa il cappellone; ma Wayne era un monumento, e poi era un altro omone pronto a bere e a fare a cazzotti proprio come lui. Peccato solo che Pilar, la sua moglie colombiana, non sopportasse Mitchum che rifiutando una certa parte le aveva rovinato la luna di miele. Dopo un lungo ostracismo Pilar gli tese una mano invitandolo a cena con la moglie, ma sulla porta di casa Wayne, il reprobo, che probabilmente era già brillo, rovinò tutto guardandole nella scollatura e dicendole: «Pilar, è ora che ti compri un reggipetto». La permalosissima latina lo cacciò immediatamente e per sempre. Da ubriaco, e lo era spesso, Mitchum si cacciava regolarmente nei guai. Per molti anni le sue enormità ebbero un lato umoristico che costringeva le vittime a non prenderle poi troppo sul serio, come quando fece freddamente la pipì sul sedile anteriore dell’automobile del produttore che lo stava sgridando. In vecchiaia però gli venne fuori talvolta un lato poco simpatico, di solito legato all’insofferenza per i giornalisti, i fans e altri aspetti di quella professione che continuava a mostrare di non prendere sul serio. Seccato di una pagliacciata a cui era costretto - foto di gruppo e intervista collettiva per promuovere un certo film - tirò un pallone da basket in faccia a una fotografa ferendola piuttosto seriamente. Dopo questi exploit, che d’altro canto gli costavano parecchio denaro, non riusciva a scusarsi. L’impassibilità dietro la quale si rifugiava aveva radici in qualche complesso che lo paralizzava anche sul piano affettivo. I figli, che pure amò assai, si lamentarono sempre della sua mancanza di comunicatività. Quanto alle innumerevoli donne, a loro non correva mai dietro, semmai si lasciava conquistare, e poche diventarono davvero importanti. Ebbe storie con una infinità di colleghe, si salvarono quasi soltanto Deborah Kerr, che mise su un piedistallo, e le vulnerabili, nevrotiche Marilyn Monroe e Rita Hayworth, che gli fecero compassione. Una relazione seria e prolungata fu quella con Shirley McLaine, all’epoca minore di lui di vent’anni ma molto focosa e pertanto ferita dalla sua apparente apatia, non sempre né soltanto alcolica. Shirley racconta che una volta per tentare di smuoverlo lo prese a pugni e calci e lo cacciò fuori dalla sua camera d’albergo, gridandogli improperi e sfidandolo a risponderle qualcosa. Lui rispose soltanto: «Quando lo vedo glielo dico». Masolino d’Amico