Luciano Canfora Corriere della Sera, 11/03/2002, 11 marzo 2002
Sparta piaceva agli ateniesi intelligenti, Corriere della Sera, lunedì 11 marzo 2002 Nel recente terzo volume dell’ampia opera einaudiana curata da Salvatore Settis, I Greci, Chryssanthi Avlami, greca d’origine e insegnante a Tours, affronta il tema più vivo e dibattuto della ”lettura” dei Greci da parte dei moderni: Libertà liberale contro libertà antica
Sparta piaceva agli ateniesi intelligenti, Corriere della Sera, lunedì 11 marzo 2002 Nel recente terzo volume dell’ampia opera einaudiana curata da Salvatore Settis, I Greci, Chryssanthi Avlami, greca d’origine e insegnante a Tours, affronta il tema più vivo e dibattuto della ”lettura” dei Greci da parte dei moderni: Libertà liberale contro libertà antica. Eccellente saggio, che potrebbe considerarsi il ”cuore” dell’ampio volume. La Avlami è memore dell’insegnamento di Pierre Vidal-Naquet, uno degli studiosi più interessanti del mondo antico. Egli sa, come pochi, che l’antico è adoperato dai moderni per capire se stessi, e per parlare, in accesi conflitti, di se stessi, cioè del presente. Con Moses Finley, Arnaldo Momigliano e altri, Vidal-Naquet ha lungamente approfondito lo studio dei «moderni alle prese con gli antichi»; ha seguito la maturazione delle categorie politiche moderne attraverso la continua, sollecitante, interrogazione degli antichi. Essa ebbe nel Discorso sulla libertà degli antichi comparata con quella dei moderni di Benjamin Constant uno straordinario e pugnace punto d’avvio. Chi pensa invece che tra studiosi di antiche e studiosi di moderne repubbliche ci sia un baratro è come un visitatore che si aggira per le gallerie del Louvre completamente bendato. Il processo di lettura-diagnosi, e messa a frutto per il presente, dell’esperienza greca è incominciato già nel corso dei circa sette secoli che separano Polibio da Giustiniano. Ha investito, man mano, coloro che - col passar del tempo - diventavano essi stessi degli ”antichi”, dopo essere stati dei ”moderni” e aver contribuito, per la loro parte, a dare una lettura degli antichi più antichi di loro. Così i Romani e le loro istituzioni, che si erano imbevuti dell’esperienza greca (parte accettandola, parte trasformandola, parte rifiutandola: rifiutata fu certo, dai Romani, la ”democrazia” greca, vista come un terribile eccesso), anche i Romani, dunque, divenuti a loro volta ”antichi” cominciarono a funzionare come antichi modelli coi quali dialogare: dialogo che vediamo durare, in diverse forme e gradi di intensità, fino a Machiavelli, e poi fino al Bonaparte, per non parlare del ”rivestimento” romano che il fascismo volle dare a se stesso. Il fatto è che tra antichi e moderni, soprattutto se s’intendono le due categorie nel senso ”dinamico” che s’è ora descritto, vi è un corto circuito continuo e ineliminabile. Ogni età, forse ogni generazione, legge gli ”antichi” mettendovi dentro qualcosa di sé. I tanti ”antichi” che ne vengono fuori sono tutti, almeno in parte, ”veri”. E quindi anche ”falsi”. Difficile acciuffare per i capelli e fissare una volta per sempre gli antichi ”veri” e definitivi. Ma questo non vale solo alle prese coi Greci e coi Romani, ma anche con quei pezzi di ”moderno” che si sono sempre più allontanati nel tempo, e tornano a essere parte di noi stessi sotto forma di oggetto storiografico. Non si capirebbe altrimenti come mai grandi fenomeni ”ritornino” prepotentemente a imporsi come oggetto della ricerca e si ripresentino ogni volta diversi. Basti pensare alle varie e ritornanti letture di un fenomeno imponente e tutt’altro che assodato, come la ”Controriforma”; ovvero ai destini storiografici altalenanti del ”giacobinismo”, in funzione, al tempo stesso, di nuovi documenti e di nuovi ”punti di vista” politici. Il ”caso” Sparta è, in questo senso emblematico. Ernst Baltrusch, di cui Il Mulino ha recentemente tradotto, nell’Universale Paperbacks, l’efficace sintesi intitolata appunto Sparta, conclude la sua trattazione con una argomentata rassegna del ”destino” di Sparta presso i volta a volta ”moderni”, che si apre con questa efficace considerazione: «Repubblicani, monarchici, democratici, socialisti, nazisti, tutti si servirono senza esitazione dell’esempio di Sparta». Corifei dell’illuminismo videro nel controllo degli efori sui re spartani il germe della ”divisione dei poteri”, mentre per Hitler Sparta era il modello perfetto di Stato razziale. Ciò non aveva impedito a Mably - ”maestro” di Robespierre ben più dello stesso Rousseau, ammiratore anche lui di Sparta - di avvolgersi, come maliziosamente dicevano i suoi avversari, nel ”mantello di Licurgo”: del quasi mitico legislatore spartano che aveva fondato l’uguaglianza e, dunque, la giustizia. Uguaglianza, giustizia, repressione contro chi intacca quei valori erano sin da allora stretti in un unico nesso. E Constant poté deridere Mably, nel suo famoso Discorso, sostenendo che Mably «detestava la libertà individuale come si detesta un nemico personale». Per Constant, ”libertà” e indisturbato uso della ricchezza individuale sono sinonimi. quello il focus del ragionamento con cui egli respinge come oppressiva l’idea di libertà che gli antichi (specie Spartani) avevano praticato, e che i giacobini, in tempi a lui vicini, avevano rinverdito e rilanciato. Alla fine del suo Discorso, Constant scioglie un inno alla ricchezza: «Il potere minaccia - scrive -, la ricchezza compensa: si sfugge al potere ingannandolo, ma per ottenere i favori della ricchezza bisogna servirla; finirà con l’avere essa il sopravvento». E siccome era uomo pratico ed esperto, precisava poco prima: «La forza è inutile, il denaro si nasconde o fugge». Il bello dei liberali veri è il loro parlar chiaro. E una loro chance non trascurabile consiste nella consapevolezza che essi hanno della vera e propria adorazione di cui la ricchezza è oggetto, specie in strati sociali che ne sono privi. Per questo Sparta, prima della ”corruttrice” opera di Lisandro (avversato nella sua città anche per questo) aveva sbarrato la strada alla circolazione stessa del danaro. Naturalmente Sparta non restò un ”monolite” immutabile. In una storia quasi millenaria, che presentava tratti di estrema vitalità ancora al tempo di Augusto, di molto si era trasformata la sua compagine, mutate erano le leggi, stravolta la composizione demografica. E dunque chi la idealizzava parlava di qualcosa che non c’era più, o era diventata altro. Come accade ed è accaduto ai ”paesi-guida” n ell’età nostra, incominciata con la prima repubblica francese e che dura ancora. Eppure gli Ateniesi del secolo quarto avanti Cristo, da un critico della politica come Isocrate a un ”pratico” per eccellenza come il meteco di origine siciliana Lisia (il quale era scampato per miracolo alla violenza dei Trenta ”tiranni”, idoleggiatori di Sparta!), sostenevano che Sparta era «un modello di democrazia». Queste loro parole, annegate tra tante altre che autori ateniesi hanno scritto sull’argomento, rischiano talvolta di cadere nel dimenticatoio della storia. Eppure sono molto indicative, per lo meno sono il frutto di una diagnosi ravvicinata, fatta da osservatori che avevano di gran lunga più elementi di giudizio che non noialtri. ”Razzisti” più o meno soft erano tutti i Greci, almeno nella loro esibita e infondata pretesa di superiorità rispetto ai barbari. Non è dunque all’esame di ”razzismo”, più o meno accentuato, che dovremo sottoporre Sparta arcaica, anche se ben sappiamo quanto l’arte ”di regime” nazista abbia adorato i corpi nudi e ”ariani” di quella idoleggiata realtà. «Quello che è strano - scrive uno spiritoso e grande storico inglese, A. H. M. Jones - è che parecchi ateniesi intelligenti ammirassero il sistema di governo spartano e lo paragonassero con vantaggio a quello della loro città (...). I suoi fautori ateniesi erano quasi tutti cittadini di elevata condizione, di nobile nascita, ricchi e educati». Jones suggerisce, tra le righe, che forse, costretti a viverci, si sarebbero ricreduti. L’esperienza della loro città, in preda ai marosi della demagogia e della corruzione, li portava a sognare ”il buongoverno”, l’eunomia. Il culto del ”mantello di Licurgo” è incominciato allora. Luciano Canfora