Pietro Citati la Repubblica, 12/03/2002, 12 marzo 2002
Mario Praz, un cervello senza nervi, la Repubblica, martedì 12 marzo 2002 Qualche volta, il tempo è giustiziere
Mario Praz, un cervello senza nervi, la Repubblica, martedì 12 marzo 2002 Qualche volta, il tempo è giustiziere. A vent’anni dalla morte di Mario Praz, leggendo e rileggendo la grande antologia che gli hanno amorosamente dedicato Andrea Cane e Giorgio Ficara (Bellezza e Bizzarria, a cura di Andrea Cane, con un saggio di Giorgio Ficara, Mondadori, I Meridiani), la sua mente ci appare la più vasta tra quelle dei saggisti italiani del secolo scorso. Era affollata di sensazioni, di sentimenti, di conoscenze, di oggetti; e non dava mai l’impressione di essere sovraccarica, perché in lei c’era spazio per ogni cosa. Aveva tanti aspetti, tante facce, tante luci, tante ombre, tanti colori, come quella che un critico forse non ha mai avuto, tranne SainteBeuve. Poteva essere ”metafisica” e romantica, neoclassica e ”decadente”, barocca, rococò e Biedermeier: era famigliare con tutto, vicina a qualsiasi apparenza, si imbeveva di qualsiasi sensazione; e sapeva rendere famigliari i suoi lettori con qualunque argomento di cui parlasse. Col passare degli anni, l’immaginazione di Praz si ampliò: la sua curiosità non ebbe più limiti; ma questo processo di dilatazione e di arricchimento avvenne in modo armonioso, come un lago quieto che si allarga e a poco a poco esce dagli argini senza trovare opposizioni. Era un critico letterario molto singolare. Non gli interessava l’interpretazione del testo: o il ritratto dello scrittore. Qualche volta tentava dei rapidi ”correlativi oggettivi” di un artista, come avevano fatto Walter Pater e Emilio Cecchi. Confidava soprattutto nella sua memoria. Come un erudito secentesco, aveva ingoiato biblioteche: queste letture gremivano fino all’orlo la sua mente, e le fornivano tutte le associazioni possibili. Ad un tratto scattava in lui lo spirito analogico: lo shock of recognition metteva in rapporto due libri, una poesia e un quadro, un racconto e un palazzo, un saggio e un paesaggio, un testo antico e un testo moderno, il naturale e l’artificiale, fondendo le qualità del critico letterario, del critico di pittura, dello studioso d’arti minori, del collezionista e del viaggiatore. Questi scatti analogici nascevano da una fortissima sensibilità nervosa: eppure nella pagina non c’era mai un sussulto, o una linea serpentina, o il guizzo demoniaco che avvertiamo in Baudelaire e Manganelli critici; perché ogni sensazione veniva ingoiata da una mente calma e lenta, che sembrava non possedere nervi. Era un malinconico e sapeva di esserlo. Forse, come diceva Walter Pater, c’era in lui «la nota d’un destino dolente, eppure inebriato e pago della sua tristezza». Aveva la mobilità e la rapidità di fantasia proprie dei malinconici, e il dono di accogliere tutto e la nostalgia del passato. Appena usciva dalle biblioteche, sentiva una caldissima simpatia per la vita: per tutto ciò che si muove, si agita, cresce, si riproduce; colorato, divertente e bizzarro. Sognava le grandi passioni romantiche, i deliri dell’amore, l’onda melodica dei sentimenti, come il Tasso e gli eroi e le eroine della Gerusalemme Liberata. Da questa realtà che desiderava, si sentiva escluso: poteva possederla soltanto con gli occhi. Era un professore di letteratura inglese, un bibliotecario, un collezionista; e, a volte, gli sembrava che la sua vita fosse irreparabilmente fallita, lo spettro di una vita reale. Malgrado gli anni, era rimasta nel suo spirito una figura di vergine: ossessionata dalle impurità del mondo, e insieme ardente di possederlo e di venirne contaminata. Non poteva stare nel centro dell’esistenza, nel grande salone dove gli altri ballavano e chiacchieravano, ma solo «nella stanza accanto», da cui si sentiva filtrato il rumore della vita. Cercava di abitare negli angoli calmi, silenziosi e abbandonati delle città, dove l’esistenza sembrava stagnare: a via Giulia, a Roma, «quieta come la vita signorile di una città di provincia, quieta come un corridoio tra quelle stanze che erano i cortili dei palazzi». O amava i luoghi al tramonto, «i climi caldi, saturi di sole declinante, i paesaggi sereni, le ville palladiane biancheggianti in fondo a un giardino o sull’alto di un colle boscoso, i grandi parchi nei quali il silenzio dei viali è solo interrotto dal frullo dei fagiani e dal correre delle lepri all’avvicinarsi dell’uomo, le parate di dalie nei giardini coi loro rossi e i loro gialli sulfurei, che a lungo rimanevano impregnate di luce dopo il tramonto del sole». Riempiva la casa di calmi gruppi di famiglia del primo Ottocento, che emanavano silenzio e fascinazione. Collezionava i ricami a punto in croce, le porcellane variopinte, i fiori fatti di conchiglie, le case per bambole, le nitide superfici di mogano e le cortine di un salotto del 1850. Componeva ritratti di sconosciuti o quasi sconosciuti, che emanavano acutissimo il profumo del tempo. Spesso, lasciava che il ritratto di colori o di parole si riflettesse negli specchi, dove risaltava un’altra figura, in apparenza simile a quella originale. Lì, rinchiusa nello specchio, stava forse la vera figura, che poteva introdurlo nel mondo doppio, più reale del nostro, dove abitano, pensano e si muovono tutti i riflessi dell’universo. Era un mondo più leggero e meno doloroso, dove anche lui avrebbe voluto vivere. La vera arte della sua immaginazione era quella barocca: Bernini, Borromini, Rubens, il barocco di Roma, dell’Austria, di Praga e dei Tropici; dove l’uomo tentò per l’ultima volta la riproduzione fantastica della tripudiante totalità e del tripudiante caos del cosmo. Il vegetale e l’animale, gli stucchi, le nubi, i raggi, le palme, le piume, le conchiglie stavano l’uno accanto all’altro. La mano dello scultore imitava la vibrazione della fiamma, il tremolio delle fronde, il fruscio di una tenda nel vento, lo stormire degli alberi. Tutto era sovraccarico, troppo folto. Le arti si confondevano tra loro in un’arte suprema: la poesia cercava gli effetti della musica, l’architettura era trattata come una scultura, la scultura come pittura, la pittura creava l’illusione dell’architettura. Dell’arte barocca Praz amava sia il trionfo dei sensi sia la decadenza e la corruzione della carne: due aspetti opposti della stessa forza. Amava la curva, che trasformava la solidità della pietra nella mobilità dell’acqua: il gioco dei vuoti e dei pieni; la presenza della materia organica. Credo che, soprattutto verso la fine della vita, rimpiangesse che i libri fossero fatti soltanto di carta e d’inchiostro. Anche la sua sensibilità religiosa era barocca. Non gli importava molto di un Dio invisibile, nell’alto dei cieli, o del Dio della teologia negativa. Non aveva nessuna tensione metafisica. Voleva che il sacro fosse percepito dai sensi, qui e ora, nelle nubi e nei raggi che scendono dal cielo, negli angeli che passeggiano tra i pellegrini, negli infiniti colori e nelle infine curve della terra, nelle invenzioni teatrali dei Presepi napoletani. Con l’altra parte del suo spirito, cercava il chiuso. Abbandonando i mari, i giardini, i colori, l’orgia del mondo barocco, rientrava nella sua casa, che si era costruita addosso come una chiocciola. Tutti gli oggetti che vi entravano erano sentimenti solidificati, sensazioni rapprese. I desideri, i ricordi, i rimpianti, le nostalgie si insinuavano e si nascondevano tra i mobili, i quadri e le suppellettili, fino a quando l’ambiente grondava di sentimenti come uno straccio bagnato. Tutte le cose erano un deposito d’anima. Non c’erano più oggetti. Esisteva soltanto il dilatato regno dell’anima, dove viveva ogni istante. Non era un esteta né un vero collezionista: non voleva la casa bella ed elegante; la voleva foltissima di cose, in modo da venire avvolto ad ogni passo dal tepore dell’io oggettivato, come il bambino che desidera ritornare nel calore del grembo materno. Mentre attraversava un corridoio o apriva una porta, contemplava una poltrona o un secrétaire Sheraton, il suo io lo guardava, moltiplicato negli oggetti. In questo monumento dell’io, la vita si era arrestata. Il battito del mondo si era fermato: tutto sembrava protetto da una campana di vetro: le cose vivevano la loro esistenza silenziosa; e le proiezioni dell’io non si risvegliavano dalla quiete che aveva evocato sopra di loro. Senza ostacoli, girava per la casa, passeggiava tra i mobili, i quadri, le case di bambole; e finalmente possedeva cogli occhi la propria esistenza pietrificata, distesa ai suoi piedi come una tomba. Nulla sfuggiva al suo sguardo: la realtà era stata estenuata, domata, incantata dalle sue arti di mite stregone. Egli conosceva la natura dei propri impulsi. Nei suoi sentimenti vi era un feticismo che lo costringeva a prestare alle cose un culto che altri avrebbero prestato a Dio. Ma non vi era alcun narcisismo. Il suo io quotidiano non lo interessava. La vita era lì, tra le mute cose, tra gli impalpabili riflessi che contenevano l’essenza immortale del suo vero io. Chiuso nella casa, Praz venne assalito dallo stesso sogno che Goethe rappresentò in una parte delle Affinità elettive. Avrebbe voluto raccogliere nella propria casa degli istanti di esistenza passata, alcune gocce di tempo trascorso: imbalsamati, gelati, immobilizzati dentro un quadro o un libro. Così egli dispose sulle pareti alcune conversation pieces, ”scene di conversazione”. Tra le esili liste di legno, tutto è fermo: una signora bionda arresta la matita sul foglio e ci guarda: una pianista vestita di bianco tiene la mano posata sui tasti, senza trarne la musica che vi sta nascosta; il signore barbuto che volta le pagine si ferma, in attesa che il pittore gli permetta di continuare... Tutti i personaggi della scena vivono una specie di ”seconda vita”: la tranquilla continuazione crepuscolare dell’esistenza terrena. Quando Praz guardava la scena, lo coglieva un’impressione lievemente sinistra. Appendendo il quadro alla parete, egli non aveva collezionato un’opera d’arte, ma un attimo scintillante, che aveva fermato e ucciso davanti a noi, come l’entomologo uccide la farfalla per disporla nelle sue collezioni. L’attimo ucciso sta ora appeso al muro, gettando una lieve luce spettrale sul presente. La sua casa non era un museo: era simile all’Ade, dove le anime vivono, tra gli asfodeli e i salici infecondi, un pallido riflesso della propria sorte terrena. Come tutti i grandi monumenti del feticismo, La casa della vita, dove Praz raccontò la propria vicenda, è un libro tragico. Egli sapeva che la trasformazione dell’esistenza in oggetti è un peccato: si sentiva colpevole della propria impresa; e a volte si domandava se contemplando mobili Impero, Conversation pieces, case di bambole, non avesse perduto la vita che in giovinezza aveva intravisto. Con i colori più caldi, con l’amorosa sensualità melodica che Tasso e Rubens avevano nutrito nella sua penna, provava ad immaginare quella vita pura e senza oggetti, che forse avrebbe potuto conoscere. Gli sembrava di aver fallito in tutto, riempiendo la sua casa di cose morte, uccidendo attimi incorporei di tempo, possedendo un’esistenza che non gli apparteneva... Ma, quando pensava così, era ingiusto verso sé stesso e la ”Casa della Vita”. Le gioie più intime, spirituali e delicate che avesse mai provato - gli unici presentimenti di un mondo superiore che potesse conoscere - gliele avevano date le cose quiete, immobili e silenziose, che aveva contemplato per tanto tempo. Pietro Citati