Martin van Creveld Corriere della Sera, 10/03/2002, 10 marzo 2002
In Medioriente serve un muro, Corriere della Sera, domenica 10 marzo 2002 Gli indonesiani a Timor Est hanno ucciso mezzo milione di persone e hanno perso
In Medioriente serve un muro, Corriere della Sera, domenica 10 marzo 2002 Gli indonesiani a Timor Est hanno ucciso mezzo milione di persone e hanno perso. I sovietici in Afghanistan hanno creato milioni di profughi e hanno perso. Gli americani hanno gettato sul Vietnam sei milioni di tonnellate di bombe - quasi il triplo rispetto a quelle gettate sul Giappone e la Germania nella Seconda guerra mondiale - e hanno perso. Anche gli inglesi in Palestina, nonostante avessero 100.000 uomini provvisti delle armi più moderne, hanno perso. E hanno perso, oltre tutto, contro poche centinaia di terroristi ebrei. Anche la lotta di Israele contro l’intifada non promette affatto bene. Non passa giorno senza che i media accusino l’esercito di ”mechdalim” (errori di omissione) e ”fashlot” (errori grossolani), quando questo o quell’ attentatore suicida riesce nel suo intento o quando i soldati, presi alla sprovvista in qualche blocco stradale, vengono massacrati. Continuamente vessate, le stesse truppe dicono di sentirsi come ”anatre al poligono di tiro”. Per usare le paro le di un ex-capo dei servizi di sicurezza, pattugliare i Territori è «come cercare di prosciugare il mare con un cucchiaino da tè». L’esperienza storica così come la situazione attuale dovrebbero indurre i politici israeliani a fermarsi per riflettere. Invece essi stanno commettendo ogni possibile errore. Dall’inizio dell’intifada, nessuna politica è stata portata avanti per più di qualche settimana. Nell’incapacità di sostenere questa situazione, i membri del comando generale hanno assunto uno psichiatra con il compito di dire loro quello che Sharon veramente vuole. In ultima analisi, il problema che devono affrontare le forze armate nel gestire questo tipo di guerra è sempre lo stesso. Chi combatte contro i deboli - e i palestinesi con i loro missili e mortai fatti in casa sono effettivamente deboli - finirà col diventare debole. Da decenni ormai ”palestinese” e ”debole” sono considerati sinonimi. Ora questi stessi deboli, stanchi e spazientiti dopo trent’anni di occupazione, fanno ogni giorno mostra del loro eroismo fino a sfidare la morte. In patria e all’estero, sono in pochi a ricordare il giorno in cui Moshe Dayan, la prima mattina della guerra del 1967, disse che Israele era «un Paese piccolo, ma coraggioso». E a ricordare come, in risposta al suo appello, le Forze armate israeliane presero d’assalto e sconfissero i loro ben più numerosi avversari in una campagna fulminante che durò in tutto sei giorni. Come dimostra perfettamente la storia di Israele, lottare contro un avversario più forte rende una società più unita, ma combatterne uno più debole la disintegra. Yitzhak Rabin, che per tutta la vita si è rifiutato di indossare il giubbotto antiproiettile, è morto da sei anni. Ancora oggi Internet pullula di giochi che invitano il partecipante a dare la caccia ai politici israeliani di sinistra come Shimon Peres e a ”ucciderli” sullo schermo. Questi stessi politici ricevono costanti minacce alla loro vita. Che Arafat non voglia porre fine al terrorismo o che non ne sia capace, comunque un altro Trattato di Oslo non è pensabile. Pertanto, l’unica possibilità di salvezza per Israele sta nel decidersi a costruire un muro. La storia ci insegna che i muri possono funzionare. La Grande Muraglia cinese e il limes romano hanno tenuto lontani i saccheggiatori per centinaia di anni. Nel nostro tempo abbiamo avuto il muro che divide le due Coree, il Muro di Berlino, la barriera che divide Cipro e, nel caso di Israele, quella che lo separa dal Libano. Anche in Terra Santa, è raro che un terrorista riesca a oltrepassare la barriera di sicurezza che circonda la Striscia di Gaza. In realtà l’unica ragione per cui Israele ha ancora problemi in quella parte del Paese è che, contro ogni logica militare, insiste nel mantenere la sua presenza su entrambi i lati della barriera invece di ritirarsi su un solo lato. Se questo non verrà fatto, e in tempi brevi, è chiaro cosa ci attende per il futuro. Se gli israeliani non reagiranno in modo forte, i palestinesi, sentendosi incoraggiati, intensificheranno l’ intifada. Nel frattempo, il numero di soldati israeliani che, nel rifiuto di commettere crimini di guerra o per semplice paura, si astengono dal prestare servizio militare nei Territori o trovano qualche scusa per non farlo, crescerà dalle migliaia di oggi alle decine di migliaia di domani. Gli estremisti di destra raddoppieranno le loro minacce contro i ”traditori” e, molto probabilmente, procederanno a metterle in pratica. Già ora lo Stato e l’ esercito israeliani stanno perdendo il controllo sui coloni indaffarati a raccogliere armi e a stabilire delle proprie milizie. L’incidente di questa settimana, la bomba fatta esplodere in una scuola palestinese da un’organizzazione ebrea finora sconosciuta chiamata ”La vendetta dei figli”, ha rappresentato un primo passo verso la guerra di tutti contro tutti. Israele non è il Vietnam del Sud e la scena di una colonna di carri armati con la bandiera palestinese che marcia su Tel Aviv non si presenterà mai. D’altra parte, se continua la situazione attuale, non vi è dubbio che il Paese verrà lacerato, magari richiamando l’intervento degli Stati confinanti, incapaci di stare a guardare mentre i palestinesi vengono massacrati. L’esito sarà disastroso per Israele, il Medio Oriente e forse per il resto del mondo. Martin van Creveld