Angelo Panebianco Corriere della Sera, 19/03/2002, 19 marzo 2002
E’ il mercato a far paura, non Berlusconi, Corriere della Sera, martedì 19 marzo 2002 Gli oggettivi problemi che pone al funzionamento della democrazia la figura di un premier che è anche capo di un impero economico non dovrebbero fare dimenticare il fatto che l’ostilità profonda che suscita l’attuale governo in una parte della società italiana non dipende solo dalla posizione personale di Silvio Berlusconi
E’ il mercato a far paura, non Berlusconi, Corriere della Sera, martedì 19 marzo 2002 Gli oggettivi problemi che pone al funzionamento della democrazia la figura di un premier che è anche capo di un impero economico non dovrebbero fare dimenticare il fatto che l’ostilità profonda che suscita l’attuale governo in una parte della società italiana non dipende solo dalla posizione personale di Silvio Berlusconi. Dipende anche dalla visione politica, o ideologia, che Berlusconi e il suo partito, Forza Italia, propongono al Paese. [...] è la visione che pone il mercato e l’impresa al centro della società, che indica nel mercato l’istituzione capace di produrre non soltanto ricchezza ma anche libertà, che parla dell’impresa come del luogo ove meglio si esprimono la moralità e la responsabilità del lavoro, ove si concentrano la fantasia e l’intelligenza applicata, e da cui si sprigionano le forze che imprimono dinamismo alla società, le sole vere artefici dell’innovazione sociale. Che poi, nei fatti, nell’azione di governo, questa visione non sia sempre rispettata, che affiorino anche spinte protezioniste o dirigiste in contrasto con essa, non è, ai fini di ciò che stiamo dicendo, importante. Poiché non è tanto il modo in cui il governo razzola quanto ciò che predica, la sua visione del mondo, il vero oggetto dell’ostilità. Che l’attuale partito di maggioranza abbia tale ideologia è lo strappo più forte che si sia verificato in tempi recenti rispetto alle tradizioni storiche del Paese. E ciò spiega benissimo (al di là della legge sulle rogatorie o di qualunque altra azione maldestra o sbagliata) il senso di estraneità radicale, e di repulsione, che tanti antiberlusconiani provano rispetto al governo. «Mercato» e «impresa», infatti, non sono mai stati al centro della cultura politica nazionale, né hanno mai goduto, nei decenni trascorsi, di un punteggio alto nella gerarchia dei valori etico-politici che le élite proponevano al Paese. Le forze dominanti della Prima Repubblica, quando non erano apertamente ostili al mercato (fu a lungo il caso dei comunisti) si limitavano a «subirlo» o, al massimo, ad «accettarlo», ma senza entusiasmo e senza perdere occasione per ricordarne i «limiti»: «la ricerca ossessiva del profitto», i guasti del «capitalismo selvaggio», eccetera. Il sistema politico si piegò alla cultura nazionale e il «lavoro dipendente» occupò in permanenza il centro della scena. Era il lavoro dipendente l’oggetto di massima cura da parte della classe politica, mentre all’impresa media e piccola (la grande aveva comunque i suoi canali privilegiati) e al lavoro autonomo, restavano le briciole, una rappresentanza, potremmo dire, «interstiziale». L’ideologia dominante era centrata intorno alla convinzione che il solo lavoro «vero» (e quindi anche «nobile») fosse quello dipendente. Talché a molti appariva, e appare tuttora, naturale pensare ai sindacati come rappresentanti dell’interesse generale e alle imprese come portatrici di interessi settoriali (spesso «illegittimi»). La società è a tal punto cambiata nel decennio trascorso che oggi è accaduto l’impensabile: sono al potere forze che indicano nell’imprenditore, più che nel lavoratore dipendente, il modello cui conformarsi e nell’impresa il luogo dei valori più positivi. è logico che lo scontro sia così esasperato [...]. Angelo Panebianco