Alfio Caruso L’Espresso, 28/02/2002, 28 febbraio 2002
Chico Scimone, un musicista tra i gangster, L’Espresso, 28 febbraio 2002 Due soli clienti in quest’inizio di serata al piano bar del San Domenico
Chico Scimone, un musicista tra i gangster, L’Espresso, 28 febbraio 2002 Due soli clienti in quest’inizio di serata al piano bar del San Domenico. L’albergo più fascinoso di Taormina è nel semi letargo di un inverno privo di sole e pieno di umido, ma alla tastiera del pianoforte il maestro è al suo posto con la grisaglia e il papillon d’ordinanza. Sotto il grande lampadario in ferro battuto, opera di suo padre Giovanni, Chico Scimone strimpella le note di ”My Way” con la stessa gioia di vivere che l’accompagna dal 1928, quando ebbe il suo primo contratto con il San Domenico. Allora aveva 17 anni e suonava per i tè danzanti. Smetteva alle 19 e 30, correva a casa per un panino con le olive, poi si presentava nell’unica sala cinematografica del paese per accompagnare con le note suggeritegli dall’estro la proiezione delle pellicole senza sonoro. Quella Taormina viveva d’inverno e dormiva d’estate con i grandi hotel chiusi per tre mesi. A luglio, ad agosto rimanevano il migliaio di abitanti e gli innamorati dell’Isola Bella, eterni vacanzieri giunti dal nord Europa. Erano attratti dal clima, dal panorama e dai ragazzetti con gli occhi scuri e il profumo di mare addosso. Chico vi aggiungeva un fisico statuario. Io e l’America. «Mio padre era preoccupatissimo: temeva che potessi essere attratto da un mondo che non capiva e non amava. Per questo alla fine del 1928 decise di spedirmi a Boston, dove lui e mia madre si erano sposati e dove io ero nato. A Boston c’era uno zio e c’era un conservatorio. Io fin lì avevo fatto la musica da autodidatta, mio padre pensò che fosse il caso di darmi una base. Così è cominciata la mia storia d’amore con gli Stati Uniti. Ci ho vissuto ininterrottamente fino al 1948, dopo ho fatto avanti e indietro. Dal 1932 sono iscritto a un club di maratoneti, il North Medford, nel 1933 ho disputato la mia maratona a Boston, nel 1985 ho partecipato a quella singolarissima gara che consiste nel fare i 1.576 gradini dell’Empire State Building. Quella del 2002 sarà la mia tredicesima partecipazione. Il mio ricordo più divertente è la sera in cui al Cotton Club chiesi a Duke Ellington se poteva suonare ”Sofisticated lady” e lui acconsentì". Io e gli amici. «A Boston mi prese sotto la sua protezione uno di Taormina più vecchio di me. Si chiamava Saro Vitaliti, un nome praticamente impronunciabile per gli yankees, che infatti lo chiamavano il ”cinese”, giacché aveva gli occhi allungati. Vitaliti mi portò a New York, era l’amico di tutti assolveva tutti gli incarichi che facilitano l’esistenza. Cercavano un pianista al Copacabana, così fui assunto da Frank Costello, il proprietario. Attraverso Costello conobbi gli altri, Joe Adonis, Bugsy Siegel, Meyer Lansky, Lucky Luciano, Vito Genovese, Charles Gambino, Albert Anastasia, Joe Bonanno. Adonis è stato l’uomo più elegante che io abbia incontrato: spendeva quasi tutto quello che guadagnava, ed era tanto, per vestirsi. Io li guardavo e mi parevano su un altro mondo anche se con me erano gentilissimi. Costello e Luciano fra di loro parlavano in dialetto siciliano, ma con Adonis e Genovese, che erano campani, e con Anastasia, che era calabrese, parlavano in inglese. Charles Gambino comprò un pianoforte a coda e voleva che io ogni giorno andassi a casa sua a suonare e cantare ”Torna a Surriento”». Io e Lucky. «Luciano era il più intelligente di tutti, posso dire che non ho più visto un’intelligenza come la sua? In qualunque impresa si fosse messo sarebbe stato il capo. Io ho visto scattare sull’attenti davanti a lui persino Lansky. I rapporti con Luciano si sono ispessiti al suo ritorno in Italia. Lui veniva spesso in Sicilia, soprattutto dopo che io nel ’53 inaugurai ”La Giara”. Dev’esserci una foto nella quale siamo Lucky, io ed Henry Rubino, l’ambasciatore degli amici a Cuba. Erano venuti tutti a Taormina perché Lucky aveva deciso di aprire una catena di night club in Europa e m’incaricò di fare un giretto per trovare i posti giusti. Con la mia Mustang andai a Madrid, a Parigi, a Barcellona. Di ritorno mi fermai a Roma, incontrai Rubino da Doney e poi proseguii per Napoli. Luciano mi aspettava al ristorante. Ordinò le due abituali uova alla coque, io una bisteccona. Lucky avrebbe voluto che l’accompagnassi all’aeroporto, andava a prendere Martin Gosch, che doveva scrivere la sua biografia. Io, però, avevo urgenza di ritornare a Taormina e partii subito. Da lì a qualche ora Lucky era morto: infarto fulminante. A casa si presentò la polizia per sapere se avevo il suo diario segreto. Rubino morì nel ’67: una sventagliata di mitra mentre giocava a golf». Io e Frank. «Ogni notte alla chiusura di Copacabana, gli amici si trasferivano in una di quelle ville alla Grande Gatsby. A volte giocavano a poker, a volte organizzavano festicciole con attori, politici, belle ragazze. Se al tavolo dei poker sedevano Costello, Luciano e Adonis, io dovevo suonare motivi melodici. Una sera era in programma una festa in onore di un pezzo grosso, Costello mi prese in disparte e mi disse che gli amici del New Jersey lo avevano pregato di mettere alla prova un giovanissimo cantante, avrà avuto vent’anni. ”Chico, se vedi che non ti segue, mandalo al diavolo e vai avanti da solo”. Era Frank Sinatra. Sbalordì tutti, quella sera cominciò la sua fortuna. Qualche mese dopo, eravamo nel ’37, esordì a Broadway». Io e Al. «Nel ’33 mi mandarono a suonare a Chicago, ma capii subito che la situazione non era buona. Capone non comandava per niente, faceva lo sbruffone, però non riusciva a mantenere la disciplina fra i suoi. Una banda di teppisti si presentò nel locale dove io mi esibivo e fece fuoco all’impazzata su tutti. Tornai immediatamente a New York. Gli amici mi fecero trovare una targhetta con su scritto ”Non sparate sul pianista”. La battuta divenne celebre grazie al cinema». Io e la legge. «Nel 1957 mi esibivo al Mondello Palace di Palermo. Vitaliti mi venne ad avvisare che all’hotel delle Palme erano arrivati alcuni vecchi amici. Andammo a trovarli. C’era Joe Bonanno, che era il capo dei capi, c’erano i Magaddino, c’era Bonventre, c’era Galante, c’era Coppola. Sa, quella che è passata alla storia come la riunione dell’hotel delle Palme. L’unico che non c’entrava niente ero io, ma nel ’64 un giudice di Palermo unisce il mio nome a quello dei personaggi presenti in albergo. Sedici patriarchi della droga, così li etichettarono i giornali, più il signor nessuno, che ero io: tutti incriminati per traffico internazionale di stupefacenti. Me la squagliai e così evitai di dover trascorrere quattro anni all’ università dell’Ucciardone. Il proscioglimento totale della Cassazione giunse, infatti, nel ’68. In quella circostanza mi salvò l’essere cittadino americano. Negli States poliziotti e giudici mi permisero di aprire locali, di continuare la mia attività. Suonavo sulle navi dell’Americana Export Lines. Le autorita’ mi conoscevano dal giorno del ’42 in cui mi volevano arruolare nell’Oss per spedirmi in Sicilia e preparare lo sbarco. Però io avevo a Taormina genitori, fratelli e sorelle: non era il caso. Furono proprio mia sorella e mio fratello a mandare avanti ”La Giara” durante la mia assenza e ancora oggi, mia sorella, che ha 82 anni, mi sostituisce al piano del San Domenico quando vado a New York». Io e ”La Giara”. «Credo che sia stato il più bel night club d’Italia, quello che ha aperto la strada agli altri. Dal ’53 al ’68 i nomi più sfavillanti si sono seduti a quei tavolini, da Marlene Dietrich a Vittorio De Sica, da Richard Burton a Liz Taylor. Io mi trovavo bene con Vittorio Gassman. Dopo che gli altri erano andati via, ci piazzavamo in riva al mare con una bottiglia di Johnny Walker e aspettavamo in silenzio il ritorno dei pescatori. ”La Giara” è stata l’emblema di una Taormina che non esiste più. Ne avevo aperto uno a Catania, ma è durata poco. Ho fatto però in tempo a conoscere una signora che mi chiese se potevo insegnare il ”cha-cha-cha” a sua figlia. La ragazza era grassottella e impacciata. Di lì a poco sarebbe diventata Mina. Nel 1948 mi imbarcai a Napoli con il Vulcania per ritornare negli Usa. Durante il viaggio un signore mi chiese se potevo accompagnare al pianoforte il figlio undicenne, che avrebbe dovuto sostenere una audizione a New York. Lo preparai per una settimana. Era Johnny Dorelli». Io e la vita. «Il mio motto è stata la canzone di Sinatra ”My way”. Anch’io ho vissuto a modo mio. A volte in modo spericolato, però sempre discreto e fedele alla parola data: non per niente sono arrivato a novant’anni. Per me hanno contato la musica, l’agonismo - vado molto fiero dei tre titoli mondiali e degli 11 titoli europei che ho vinto nella marcia, categoria masters - e gli amici. Non ho mai consentito a una donna d’invadermi la vita, infatti ho avuto quattro mogli e ho sentito dire che forse in primavera mi sposo per la quinta volta». Alfio Caruso