Giancarlo Dotto L’Espresso, 28/03/2002, 28 marzo 2002
Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi, L’Espresso, 28 marzo 2002 stato di parola. Ha messo in scena la sua morte
Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi, L’Espresso, 28 marzo 2002 stato di parola. Ha messo in scena la sua morte. Lo ha fatto con il perfezionismo di sempre, la cura maniacale dei dettagli. Questa volta ha scelto anche il pubblico. Pochi intimi. Nessuna replica. Per la sua ultima impresa d’attore ha rinunciato al prediletto Beyer, il microfono con cui faceva all’amore. Non c’era più nulla da amplificare. Gli avevano inciso, insieme al colon e al peritoneo, anche un pezzo di diaframma e la sua voce non era più la sua voce. «Non ha più le armoniche», si disperava a chi provava a consolarlo. Aveva urlato notti intere, come un lupo in gabbia. Spellato dall’orrore ancora prima che dal dolore. Aveva invocato la morfina, il cianuro, l’eutanasia, maledetto i medici che lo tenevano in vita. «Che devo fare? Ditemi, cosa devo fare?». Un giorno ha smesso di invocare. Ha smesso di lamentarsi. Delle fitte atroci, dei cani che abbaiavano là fuori, dello stomaco che perdeva i pezzi. Ha smesso con le allucinazioni. Che altro erano quei bambini che in giardino cantavano ”Tu scendi dalle stelle”, tra gli angeli di gesso dell’Hamlet Suite? Ha fatto sistemare una pagina di giornale sullo specchio in camera da letto per non vedere più riflessa la sua immagine agonizzante, ha oscurato la stanza, spento il suo Sony 34 pollici acceso da una vita, lasciando solo una luce fioca da tela fiamminga sul suo viso sfinito, la barba lunga e il quadro alle spalle dell’amico Marotta, Amore e Psiche. Mi ha chiesto in fin di voce di aggiustargli la coperta di lana sulle gambe. «Le gambe, non le sento più». Di piegare i quattro orli, tutti allo stesso modo, simmetrici. L’ho fatto senza chiedermi perché, era tempo perso con lui chiedersi perché. Solo dopo aver controllato che tutto fosse al suo posto, si è abbandonato con le mani intrecciate sul petto. «Adesso voglio dormire», le sue ultime parole, rivolte a Luisa, la compagna insostituibile degli ultimi anni. E si è preparato a morire. Somigliando impeccabile ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle poesie di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, nei racconti di Poe e nei manuali di psichiatria di Krafft-Ebing. La morte migliore possibile, vegliato dal brusio delle donne che lo amano e che lo hanno amato, la femminile disattenzione che da sempre scortava i suoi eroi morenti di scena. L’aveva detto agli amici più intimi. Il suo ultimo spettacolo sarebbe stato una veglia funebre. Del manichino stremato che restava in lui, in fondo a tutti i suoi Pinocchi, a tutti i Lorenzacci e gli Amleti, in fondo ai sipari strappati, le pellicole bruciate, gli infarti e le emicranie, il fegato che fa acqua, bottiglie e farmaci scolati, il bisturi e il verso, tutto precipitato, tutto in apnea e il monaco insonne, migliaia di notti bianche, pagine e pagine, una scorribanda che lo ha lasciato, che ci ha lasciato, senza fiato. Il cancro era tornato. Era già in metastasi e non lo sapeva quando leggeva Dante nel castello di Otranto, lo scorso agosto, l’ultima esibizione pubblica davanti alla sua gente. Memorabile, raccontano i presenti. Era stanco Carmelo. Se ne infischiava del mondo che lo adorava o lo detestava, del tempo che gli restava o non gli restava. Era deciso a conquistarsi una lucida follia alla Friedrich Nietzsche. Il suo ”depensamento”. Non usciva più di casa. Cantava arie di Rossini e farfugliava fitto mentre scriveva con la pazienza dei monaci amanuensi. «Ogni tanto mi viene di buttarmi giù dal terrazzo», mi diceva nella sua casa di Otranto, «ma poi ci ripenso, sarebbe una volgare piazzata». Mille volte spacciato e miracolato. Anche stavolta sembrava potercela fare. Nonostante 200 metastasi, infezioni, ernie, versamenti, l’addome che si apriva, la carne marcia. Per l’ennesimo massacro da bisturi aveva scelto un chirurgo, Husher, che gli ricordava le rovine della casa del suo prediletto Edgar Allan Poe. Deliri sempre illuminanti, i suoi. Perdeva budella e pezzi d’intestino ma questo non gli impediva di dare lezioni notturne in francese su Céline all’infermiere che lo vegliava. Una delle ultime notti, gli tornò la voglia di scrivere, ma le mani erano così deboli che non riusciva più nemmeno a reggere il suo pennarello di china. Carmelo Bene era troppo per chiunque di noi. E adesso che non c’è più, ognuno si porta via il pezzo preferito della sua sconfinata biografia. L’attore sublime, l’intellettuale aforistico, il cineasta, lo scrittore, il poeta, la voce, il performer televisivo. Lo scandaloso e il solitario, l’incantatore e il serpente, il vampiro e la ferita sempre aperta. Un orco impastato di tenerezza. Non era possibile stargli al fianco più di qualche tempo senza patire le ustioni, senza dover cercare tregua altrove, nel mondo dei normali, dove non tutto precipita contro il limite. Più che una vita, un’impresa di demolizione la sua. Aveva il carisma di un divo rock e lo dimostrò quella notte a Bologna, ammaliando i 200 mila dalla torre con la lettura di Dante. «Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta...», salutata con un boato come un riff di Jimi Hendrix. La lettura di Jacques Lacan (che gli rese omaggio a Parigi in camerino), le amicizie con Gilles Deleuze e con Pierre Klossowski orientarono dagli anni ’80 tutta la sua opera contro 1’impostura del soggetto parlante. Scoprì le grandi macchine del suono e se ne invaghì perdutamente. Affabulava notti intere di Svetonio e di Elliot, di Artaud e di Cioran, ma era la rassicurante bellezza dell’inorganico la speculazione preferita dei suoi ultimi anni. Era nato lo stesso giorno, la stessa ora, lo stesso minuto, 15 anni dopo, di Vittorio Gassman, l’amico rivale che lo applaudiva in piedi all’Olimpico nel buio di platea, dopo un Adelchi, poco prima di morire. Tutto era un ring per lui. Disumano per eccesso di umanità, combattente feroce per quanto consapevole della disfatta. Ogni cosa una sfida. Come quella notte, lui come sempre mollemente sdraiato sul gomito sinistro, a curiosare nel dormiveglia dell’insonne un film sulla vita di John Holmes. Holmes che dice «Ho avuto 14 mila donne» e lui, Carmelo, che riemerge stizzoso: «Ma se persino io non sono arrivato a 5 mila!». Lo stesso che si commuoveva fino alle lacrime quando parlava all’amico della grandezza di Von Masoch. Ora posso solo dire che la sua mancanza ci brucia le tempie. E a nulla ci serve recitare la storiella del genio mai nato e dunque mai morto. Che mille gradi Celsius sono bastati a ridurlo in cenere. Ma non a riscaldarlo. Aveva sempre freddo, Carmelo. E odiava l’idea di diventare un mucchio di gelatina in fondo a una bara. «Delle mie ceneri fate quello che volete», ripeteva, «magari una crostata per colazione». Abbiamo smesso da tempo di chiederci da dove sia mai piovuto questo essere così speciale che ora qualunque sternuto può disperdere nella volgare polluzione del pianeta. Non è solo l’amico che manca, ma quella voce, chissà dove è andata, quella voce che ci dava calma e forza, quella voce che era la nostalgia di tutto ciò che abbiamo perduto senza avere mai avuto. Che solo a sentirla ci spediva in paradiso. Lui, quella creatura speciale, lui non c’è più. Peggio per noi. Giancarlo Dotto