Carlo Bonini la Repubblica, 18/03/2002, 18 marzo 2002
«Difendo Osama, se me lo chiede una Corte», la Repubblica, lunedì 18 marzo 2002 Boston. Tra la baia dei dannati di Guantanamo, Cuba, e le austere navate dell’’Hauser building” della facoltà di legge di Harvard, Massachusetts, ci sono solo cinque ore di volo e un paio di stagioni
«Difendo Osama, se me lo chiede una Corte», la Repubblica, lunedì 18 marzo 2002 Boston. Tra la baia dei dannati di Guantanamo, Cuba, e le austere navate dell’’Hauser building” della facoltà di legge di Harvard, Massachusetts, ci sono solo cinque ore di volo e un paio di stagioni. Ma in questo spazio un’intera nazione, ferita, ha smarrito in sei mesi una parte di sé. Interrogarsi in tempo di guerra su cosa resterà delle libertà civili negli Stati Uniti quando un giorno, forse, tutto questo sarà finito è esercizio che registra l’infastidito disinteresse dei più, la distratta presenza dei media, lo spiccio disprezzo di chi ne ha le scatole piene degli illuminati intellettuali europei. E anche per questo, allora, nel vederlo sepolto dietro la sua scrivania allegramente ingombra di pandette, assediato da scatoloni con le copie del suo ultimo saggio (Shouting fire, civil liberties in a turbulent age), il professore della cattedra di «Criminal law» Alan Dershowitz comunica la malinconica sensazione del giapponese nella trincea di una guerra se non persa, forse irrimediabilmente compromessa. Nei giorni del processo a O. J. Simpson e alla cattiva coscienza della razza bianca, il «professore» innamorato delle libertà civili decise di mettersi di traverso, intascare una montagna di dollari dal nero più odiato d’America, vincere un processo che gli ha guadagnato l’infinito disprezzo di una parte del paese. Oggi, il «professore» si tormenta con altre domande: «Erano passati pochi giorni dal dramma dell’11 settembre. Continuavo a fissarne lo scempio e una vocina da dentro cominciò ad ossessionarmi: ”Non vorrai forse difendere un giorno uno di questi bastardi, vero?”». E cosa ha risposto alla «vocina»? «Che se una Corte, e soltanto una Corte, dovesse chiedermelo, accetterei la difesa di un imputato di Al Qaeda». Difenderebbe anche Osama Bin Laden? «Starei male, ma se fosse la Corte a nominarmi, sì. Non avrei altra scelta». è una notizia. Non sembra ci sia la fila per difendere gli imputati di terrorismo. «Non è vero. La fila c’è. Sono avvocati politicizzati di origine araba pronti a difendere più che l’imputato la ”causa” della sua religione o del suo popolo. Sono tanti, sono giovani, hanno fame di ribalta». Perché, professore, si mette di traverso al senso comune del suo paese? è convinto che le libertà civili siano in pericolo? «La torsione c’è stata, ma non ha inciso sulle nostre libertà fondamentali. Si potrebbe addirittura eccepire che poco o nulla è accaduto». Dunque? «è accaduto qualcosa di non immediatamente percepibile. La torsione delle libertà civili ha prodotto una frattura del nostro sistema di garanzie sul piano dell’uguaglianza. Oggi, i nostri fondamentali principi di libertà individuale non valgono per chi, cittadino non americano, è accusato nel nostro paese di sospetta attività terroristica». Dove si è consumata la frattura? «Su almeno tre questioni. Primo: all’indomani dell’11 settembre, migliaia di immigrati sono stati arrestati sulla base del semplice sospetto e molti di loro continuano ad essere prigionieri di un incubo kafkiano. Secondo: l’istituzione di tribunali militari incapaci di assicurare un giusto processo. Terzo: il campo di prigionia di Guantanamo». A Guantanamo è in gioco qualcosa di più del sistema di garanzie americano. Le condizioni di detenzione fanno a pugni con la Convenzione di Ginevra. «Giuridicamente, l’obiezione non mi convince. La Convenzione di Ginevra è uno strumento obsoleto, tarato su un mondo che combatteva in armi e sotto insegne riconoscibili. Il terrorismo, la minaccia di ricorso ad armi di distruzione di massa da parte di singoli e non di Stati ne impone una riscrittura. Cosa è Al Qaeda? Un esercito, forse? Non direi. Ma non è neppure una somma di individui. Al Qaeda è qualcosa che sta in mezzo». Allora dov’è il problema Guantanamo? «I taliban devono essere considerati prigionieri di guerra e a loro vanno riconosciute tutte le garanzie previste dalla Convenzione. Tutte. Ripristinando dunque i loro diritti di prigionieri di guerra. Cosa che può non valere per i militanti di Al Qaeda. è necessario procedere a una rapida e per quanto possibile accurata identificazione dei prigionieri e delle loro supposte responsabilità. Cosa che non sta avvenendo. L’Amministrazione Bush sta prendendo tempo. Insiste sulla circostanza dei ”prigionieri non identificati” per non applicare a pieno la Convenzione, lasciando che i militari dettino altre regole per tutti i detenuti del campo». Forse è un problema anche capire se, come e quando questi prigionieri verranno processati. Guantanamo sta diventando una Caienna. Cinque campi di detenzione entro i prossimi nove mesi e non un’udienza fissata di fronte a un giudice. «Credo che i prigionieri di Guantanamo non saranno mai processati negli Stati Uniti, anche perché, a stare a quanto venne annunciato, dovrebbero essere giudicati da Tribunali militari. Un’idea talmente insostenibile sotto il profilo giuridico che credo che lo stesso Bush abbia intenzione di farla dimenticare agli americani e al mondo. Se mai questi processi dovessero svolgersi, Bush, in qualità di comandante supremo delle forze armate, sarebbe giuridicamente il titolare dell’azione penale. No, direi proprio che non accadrà. E comunque, se mai dovessero essere giudicati, va detto subito e con chiarezza che i prigionieri di Guantanamo non avranno mai un giusto processo, perché l’America li ha già condannati». Che ne sarà degli altri imputati di terrorismo? Anche a loro verrà sottratto il diritto al giusto processo? «Il giusto processo nel nostro sistema penale è un concetto progressivo. E mi spiego. In astratto, sono convinto che, oggi, un imputato di terrorismo sia in grado di avere un giusto processo di fronte ad una giuria popolare. Meno, molto meno, di fronte a un tribunale militare. Detto questo, la realtà è più complessa, perché sul principio astratto del giusto processo è intervenuta per legge l’Amministrazione Bush. E in modo sostanziale, modificando il principio del giudice naturale, vale a dire precostituito per legge. Oggi, per fatti di terrorismo, il ministro della Giustizia può scegliere da quale giuria popolare l’imputato verrà giudicato. E la scelta, fino ad oggi, è caduta sulle giurie del Nord Virginia. Lì dove risiedevano le vittime dell’attacco al Pentagono. Bene, nessuno potrà mai convincermi che quelle giurie siano in grado di assicurare un giusto processo». Professore, lei crede veramente che Guantanamo e le detenzioni a tempo indeterminato dei sospetti di terrorismo siano soltanto un problema giuridico? «Assolutamente. Questo paese ha già conosciuto, nella seconda guerra mondiale, la vergogna dei campi di concentramento per civili giapponesi, italiani, tedeschi sorpresi negli Usa allo scoppio del conflitto. In quel che accade oggi, vedo il segno pericoloso dell’assuefazione all’idea di una compressione ”accettabile” delle libertà individuali altrui, dimenticando che potrebbe poi toccare alle nostre. E intanto, il governo ha superato la soglia invisibile ma condivisa di un esercizio equilibrato del potere. Non solo nelle carceri». Anche altrove? «Dall’ottobre scorso, l’Amministrazione Bush ha insediato di fatto un gabinetto ombra presieduto da Cheney nell’ipotesi di un’emergenza. In questo para-esecutivo non siede neppure un rappresentante del legislativo. Non era mai successo che venisse violato il principio cardine della nostra costituzione che è quello di una separazione bilanciata dei poteri e del loro reciproco controllo». Ha paura? «Ho paura che in questo tempo che stiamo vivendo si affaccino terribili spettri». Ad esempio? «Mi è capitato di chiedere nelle mie conferenze se chi mi ascoltava ritenesse legittimo ricorrere alla tortura come arma finale per strappare a un sospetto informazioni in grado di impedire un attentato. Mi è sempre stato risposto con un ”sì”. Ad ottobre è stata divulgata la notizia che l’Fbi non esclude il possibile ricorso in casi estremi alla ”pressione fisica”. La tortura sembra una tentazione irresistibile. Mi auguro che quel giorno non arrivi mai e soprattutto che non arrivi mai che non arrivi in questo assordante silenzio». Carlo Bonini