Maurizio Molinari La Stampa, 18/03/2002, 18 marzo 2002
Pistole e galateo, La Stampa, lunedì 18 marzo 2002 Il proprietario del caffè ”Atara” sul Rehov Aza, nel residenziale quartiere di Rehavia, indossa la pistola con discrezione
Pistole e galateo, La Stampa, lunedì 18 marzo 2002 Il proprietario del caffè ”Atara” sul Rehov Aza, nel residenziale quartiere di Rehavia, indossa la pistola con discrezione. è di piccolo calibro, nella fondina color mattone attaccata alla cinta nera dei pantaloni dietro la schiena. Capelli bianchi, occhi azzurri e piccoli occhiali mitteleuropei, il gestore cinquantenne del bar-ristorante sta in piedi di fronte all’entrata, non si siede mai. Saluta i clienti che entrano ma guarda oltre, lungo il marciapiede, prima a destra e poi a sinistra. Chi è a tavola vede le sue spalle e quindi la pistola. La vista per gli avventori è rassicurante, c’è lui che sorveglia, si può mangiare tranquilli senza dover in continuazione alzare gli occhi per guardare in faccia chi entra nel timore che esploda, come è già avvenuto alla pizzeria ”Sbarro” o al caffè ”Moment”. Le piccole armi per la difesa personale sono un antidoto contro il terrorismo nei piccoli e grandi centri dello Stato ebraico. A diciotto mesi dall’inizio dell’Intifada di Al Aqsa si stanno dimostrando una delle migliori difese. Israele è abituata dal 1948, anno della nascita, ad adattare con grande flessibilità le proprie difese alle nuove minacce: se per fronteggiare gli Scud di Saddam Hussein ha realizzato il sistema antimissile «Arrow», contro le bombe umane mette in campo le armi per la difesa personale. L’Intifada è infatti una guerra di guerriglia contro i civili e la miglior difesa è quella del singolo che, grazie alla propria pistola nella fondina, può continuare ad andare al lavoro, a spasso o a cena. Le pistole rassicurano chi le porta e chi le vede, i ragazzi trentenni che le indossano con disinvoltura sul lungomare di Tel Aviv o di Natania rendono la missione più difficile ai kamikaze palestinesi perché possono vanificare l’effetto sorpresa del suicidio esplosivo. In Israele ogni uomo ha alle spalle tre anni di militare, ogni donna due. Saper sparare non è un’eccezione e in genere la mira è buona e i nervi sono saldi. Anche prima dell’Intifada molti israeliani giravano armati, ma oggi il loro numero si è moltiplicato e, soprattutto, la pistola è quasi sempre discretamente visibile, non più nascosta sotto la giacca o la camicia. La presenza di tante armi di piccolo calibro nella vita comune ha creato un inedito galateo il cui scopo è quello di fare l’impossibile per mantenere un’apparenza di normalità. All’entrata dell’ospedale Hadassa di Ein Karem, ad esempio, c’è un’addetta alla sicurezza che chiede cortesemente a ogni persona se possiede un’arma. In caso affermativo tutti si comportano allo stesso modo, seguendo una regola non scritta ma evidentemente imparata a memoria: si toglie il caricatore dall’arma, lo si consegna all’addetta che dà in cambio un tagliando simile a quelli dei guardaroba e infine si punta la pistola verso un grande cesto di sabbia facendo il ”clic” necessario a confermare che non c’è alcun proiettile in canna. Il tutto non prende neanche un minuto di tempo e finisce con un reciproco «grazie» che si ripeterà quando il portatore dell’arma, all’uscita, riavrà il proprio caricatore. Se i singoli preferiscono i piccoli calibri, il personale di sicurezza di grandi magazzini, cinema e teatri spesso mette in mostra fucili mitragliatori, come l’M-14 o l’M-16. Il motivo è la necessità di colpire la bomba umana a distanza, prima che si avvicini alla folla in coda di fronte all’entrata. Quanto più ci si allontana dalla linea verde che segna i confini di Israele del 1967, tanto più aumenta il numero di fucili a tracolla di civili. Negli insediamenti ebraici i mitragliatori si vedono tanto quanto le pistole perché i pericoli non sono solo le bombe umane ma gli agguati lungo la strada - veri e propri conflitti a fuoco - e i cecchini notturni. Le jeep con bandiere e armi che spuntano dai finestrini sembrano la copia carbone dei veicoli a quattro ruote con cui la Guardia Nazionale americana pattuglia i confini messicani dando la caccia agli immigrati clandestini. Quando pistole e fucili non ci sono gli israeliani non esitano a battersi a mani nude per neutralizzare i kamikaze. Gli eroi dell’ultima settimana sono Shlomi Arel, 23 anni, e Ariè Vilner, 40 anni, rispettivamente cameriere e responsabile della sicurezza del caffè ”Kafit” sulla strada Emek Refaim di Gerusalemme. Giovedì scorso hanno individuato un giovanissimo kamikaze appena aveva varcato la soglia, lo hanno immobilizzato con uno scatto simultaneo e il cameriere - un ex membro delle truppe speciali con il vezzo dell’orecchino sul sopraciglio - ha avuto la freddezza di prendere in mano i fili collegati all’esplosivo per staccarli di forza dal caricatore. Il salvataggio all’arma bianca ha evitato una carneficina e consegnato l’attentatore nelle mani delle squadre antiterrorismo. Il capo della polizia di Gerusalemme, Shlomo Aroneski, ringraziando gli «eroi» Arel e Vilner, ha usato parole molto simili a quelle che pronunciò lo scorso dicembre il presidente americano George Bush per lodare la coraggiosa hostess dell’American Airlines che scoprì il kamikaze con l’esplosivo nelle scarpe. Negli Stati Uniti come in Israele sono l’impegno e l’allerta dei singoli il migliore deterrente contro il terrorismo, la sicurezza di tutti è nelle mani di ognuno. Maurizio Molinari