L’espresso 23/03/2006, Emilio Marrese, 23 marzo 2006
Campioni senza parole. L’espresso 23 marzo. Un’intervista a Farabegoli Andrea, centrocampista classe ’76 del Forlì, fondo classifica del girone B della serie C2, costa 41 centesimi al minuto più 13 centesimi di scatto alla risposta
Campioni senza parole. L’espresso 23 marzo. Un’intervista a Farabegoli Andrea, centrocampista classe ’76 del Forlì, fondo classifica del girone B della serie C2, costa 41 centesimi al minuto più 13 centesimi di scatto alla risposta. Basta telefonare al 199.240.028 e prendere appuntamento per la chiacchierata col tassametro. Dalle 11 alle 13 e dalle 15 alle 18 risponde Oscar Tacchi, ex calciatore e ora consulente esterno del geniale presidente Marco Oliveti, anni 37, quello che ha avuto la brillante idea della linea a pagamento per parlare con giocatori e tecnici della sua squadra. Il primo mese la trovata ha reso circa 1500 euro. Però ha telefonato anche uno del Frosinone e gli hanno venduto un giocatore, Ranieri. «Noi i giornali in edicola li compriamo», si giustificano. Poco importa che con Shevchenko e Ibrahimovic si possa parlare gratis (almeno per ora) e con i loro Tarini o Cornali invece no. E’ l’ultima ridicola degenerazione di un rapporto sempre più difficile e a tratti grottesco tra i mass media, in particolare la stampa scritta che non paga diritti, e i protagonisti dello sport. Chi legge un’intervista botta e risposta, come si suol dire, non immagina che spesso quel dialogo così vivace e confidenziale c’è stato solo tra il giornalista e un registratore. O un addetto stampa o, se va bene, una mail scritta, forse, dal campione. Con le dichiarazioni di Michael Schumacher dopo un Gran Premio, tanto per dirne una, funziona così: c’è la conferenza stampa ufficiale in inglese dopo la gara alla quale partecipano i tre piloti saliti sul podio (dunque il ferrarista l’anno scorso ne ha fatte ben poche) e altrimenti l’addetta stampa del tedesco, la bionda e gentile Sabine, raduna i cronisti italiani nel motorhome per gli ospiti Ferrari e fa loro ascoltare, traducendo, quello che Schumacher ha detto nelle interviste alle tv raccolte in una specie di ring nel paddock, un quadrato di transenne con microfoni e telecamere fuori e il pilota dentro. Anche Alberto Tomba dopo la debacle nelle Olimpiadi di Nagano mandò un registratore nell’albergo degli inviati col suo commento: e anche lì forse servì un interprete... Per avere un colloquio in esclusiva di persona con Schumi si può anche aspettare sei mesi, sempre che venga concesso: come per un elettrocardiogramma all’ospedale, più o meno. Ma di mesi ce ne volevano almeno un paio anche per avere un one to one con lo spagnolo della Renault Fernando Alonso, ancor prima che diventasse campione del mondo. Gli altri piloti invece li si riesce a beccare quasi tutti passeggiando per il paddock prima o dopo i gp, spesso in ammucchiate selvagge dove basta arrivare con un secondo di ritardo e si deve infilare l’orecchio sotto l’ascella di un cameramen norvegese per carpire una parola su sei. Bisogna arrangiarsi. Ad esempio, serve un’intervista a Francesco Totti, dopo una bella prestazione del fuoriclasse giallorosso, sul charter che riporta a Roma squadra e cronisti embedded? Basta scrivere su un foglio 6 o 7 domande concordate tra tutti, affidarle all’addetto stampa che cortesemente le porta al capitano qualche fila più avanti e attendere che il solerte impiegato della Roma torni a riferire le risposte a voce (la sua). Dopo l’infortunio, purtroppo, il capitano ha un po’ più di tempo libero. Il contatto diretto col calciatore un tempo era la regola e ora è l’eccezione, ormai un privilegio di pochi: ogni giocatore ha i suoi due o tre giornalisti amici o fidati, ma anche il loro rapporto deve piegarsi alle norme sempre più rigide che governano le relazioni coi media. Ci sono squadre che ormai impediscono non solo le interviste telefoniche ma anche che cronisti e giocatori possano incrociarsi nel parcheggio: ad esempio all’Inter, dove Marcello Lippi a suo tempo fece erigere un muro alla Pinetina, nel senso fisico della parola, per evitare qualsiasi promiscuità. Al centro tecnico di Appiano Gentile c’è una conferenza stampa al giorno col giocatore scelto dalla società, e gli altri nemmeno li vedi. Gli allenamenti, poi, neanche a parlarne. Fa formidabile eccezione il Brasile, che aprì il campo ai giornalisti prima della sfida con la Germania in Giappone 2002, e i più intrepidi potevano perfino, avventurandosi dietro una porta, portare a casa come souvenir una pallonata in faccia di Roberto Carlos. Cose che con l’Albinoleffe non capiterebbero mai, ma d’altra parte quella era solo una finale mondiale... Così si regolano tutti i club, salvo concedere a chi ne faccia richiesta un colloquio privato nel giro di qualche giorno. Se hai prenotato una settimana prima il brasiliano Mancini o Perrotta della Roma, bene, ma se ti sorge l’esigenza solo la mattina al massimo possono offrirti lì per lì un Bovo. Sempre che il giornale non sia finito nella lista nera della società di turno per aver scritto qualcosa di sgradito, e in tal caso bisogna scontare un periodo di squalifica. Adriano Galliani prima si concedeva molto volentieri alla Gazzetta dello Sport in esclusiva, ora che il giornale rosa lo ha bastonato in qualche circostanza, preferisce il Corriere dello Sport. Capita sovente che all’indomani di un match importante e ricco di spunti venga propinato il portiere di riserva e non l’autore di una tripletta. Dopo le partite, nei grandi stadi come Olimpico, San Siro o Delle Alpi, esiste quasi sempre una cosiddetta mix zone, un’area cioè dove è lecito inseguire il giocatore nel tragitto tra spogliatoio e automobile e chiedere la grazia di una sosta, o almeno che rallenti il passo per bofonchiare qualcosa. Nella maggioranza degli stadi, invece, oltre all’allenatore viene in sala stampa chi ne ha voglia, cioè quasi nessuno o sempre gli stessi due per squadra, pietosi, vanitosi o semplicemente rispettosi. Coi cosiddetti top players, da Zidane a Ronaldo o Del Piero, il mezzo di comunicazione più frequentato (l’unico nei loro momenti difficili) è il sito internet personale o quello della società (talvolta a pagamento), dal quale copiare le solite quattro banalità, oppure la tv del club, come le varie Roma, Inter e Milan Channel nate sul modello delle pay tv di Manchester United e Real Madrid. Un’altra strada è quella del manager che ti riferisce il pensiero del proprio assistito: fai conto che te l’abbia detto lui. Salvo poi, è successo, beccarsi lo stesso la smentita del giocatore. Vi sono poi singolari eccezioni, come nel caso della Lazio dove alcuni giocatori, soprattutto negli anni scorsi, potevano interrompere un silenzio stampa o trasgredire i regolamenti interni in materia di comunicazione intervendo, anche di persona in studio, alla trasmissione radiofonica gestita dagli ultras. Paolo Di Canio ancora affida il suo verbo in esclusiva, fuori dalle rarissime conferenze stampe, a "La voce della nord", il programma degli Irriducibili. Perlomeno soldi ancora non ne chiede nessuno, in Italia. Pagare è prassi in Inghilterra, dove i giocatori possono essere intercettati gratis solo dopo le partite oppure nei rari media day organizzati prima dei grandi match e irregimentati più che alla Casa Bianca: qui le tv, qui le radio, qui le agenzie, qui i quotidiani e qui i domenicali. La star nigeriana Jay Jay Okocha, quando giocava in Turchia, riuscì ad ottenere un ingaggio per un’ospitata televisiva anche per il suo cane. Soldi ne chiedono anche gli ex campioni: lo faceva George Best (che ha venduto l’esclusiva per il suo ultimo scatto sul letto di morte al News of the world). L’ex campione del nuoto Mark Spitz ha un preciso tarrifario basato sulla durata dell’intervista tv in rapporto al costo degli spot inseriti. Tommy Smith, l’oro dei 200 metri che alzò il pugno nero del Black Power sul podio di Città del Messico ’68, ci prova sempre a scucirti 5000 dollari: non se la passa granché bene. Johann Cruyff parla per 20 mila euro: gratis solo se aspetti un annetto, forse. Negli altri sport non è troppo diverso. Valentino Rossi, ad esempio, con la sua faccia da ragazzino della porta accanto, è ormai circondato da un cordone di protezione che ti consente di avvicinarlo, per un incontro in esclusiva al paddock di un quarto d’ora, solo dopo due o tre mesi di anticamera. Mike Tyson aprì ai giornalisti italiani i cancelli della sua villa, ai bei tempi che furono, solo dopo qualche anno. Lance Armstrong, il re americano del Tour de France, rispondeva via mail solo a pochi intimi. Tempi di attesa intorno ai due o tre mesi anche per avere un’intervista con un asso della racchetta, passando attraverso la Atp. Per un appuntamento con una delle sorelle Williams possono passare anche sei mesi. A meno che non intervengano gli sponsor personali, che organizzano meeting con la stampa o interviste di 10’ a gruppi di 3 o 4, ad ogni tappa del circuito. Quella dello sponsor è quasi l’unica via praticabile per avere un approccio coi alcuni big di fama mondiale, ad esempio quelli dell’atletica, non dopo essersi sorbiti lunghe dissertazioni sull’ultimo modello di scarpa. Ma in tal caso è considerata buona educazione, dagli organizzatori, non roccare argomenti sconvenienti: ai Mondiali di Edmonton in Canada qualcuno, ad esempio, osò parlare di doping con Michael Johnson e Marion Jones venendo immediatamente stoppato dallo sponsor. Gran parte dei giornalisti allora si alzarono e se ne andarono. Emilio Marrese