Massimo Gramellini La Stampa, 04/04/2002, 4 aprile 2002
Arafat, l’agnello mediatico in kefiah, La Stampa, giovedì 4 aprile 2002 Con una candela in mano e una patata in bocca, l’agnello Arafat sta vincendo la Guerra Mediatica di Pasqua, che promette di orientare i destini del Medio Oriente anche più di quella vera
Arafat, l’agnello mediatico in kefiah, La Stampa, giovedì 4 aprile 2002 Con una candela in mano e una patata in bocca, l’agnello Arafat sta vincendo la Guerra Mediatica di Pasqua, che promette di orientare i destini del Medio Oriente anche più di quella vera. Prima che le telecamere lo riprendessero nel bunker di Ramallah, intento a stampare i suoi labbroni tumefatti sulle guance dei pacifisti in devoto pellegrinaggio, il capo dell’Olp era un supportato speciale, una pagina di Storia incollata malamente a qualche brandello di attualità. Ma candele e patate hanno compiuto il miracolo della risurrezione, a riprova che non sempre chi possiede i mass media li sa anche usare. Anzi, da Khomeini in poi è sempre stato vero il contrario. A differenza del goffo Sharon, che al massimo potrebbe fare la parte del cattivo in un film di James Bond, Arafat è uno straordinario uomo di spettacolo e anche nell’ora più drammatica ha saputo costruirsi un rifugio che è innanzitutto un set. Arafat asserragliato fra i suoi fedeli. Arafat a lume di candela, ché gli hanno tolto la luce. Arafat che mangia solo una patata bollita al giorno, ché gli hanno tolto il cibo. Arafat che si passa un fazzoletto secco sul viso, ché gli hanno tolto pure l’acqua. Arafat che dorme per terra anzi non dorme affatto, ché i cattivacci da fuori non lo lasciano riposare, megafonandogli insulti nelle orecchie. Arafat che sbatte il telefono in faccia alla diva frangettata di Cnn Christiane Amanpour, che - diciamo la verità – con quel che guadagna e le arie che si dà, sta sui nervi un po’ a tutti i colleghi. Arafat che bacia l’eversore francese degli hamburger Bové e lancia sorrisi nonneschi alla giovane pacifista tedesca Julia Deeg, estasiata nel descriverlo «seduto al tavolo di lavoro come un vecchio indifeso». L’agnello sacrificale è una metafora che nella civiltà dell’immagine funziona sempre, tanto nessuna telecamera andrà mai dietro il suo sorriso a ispezionarne i denti. E così Arafat vittima del destino e mago dell’etere ha riconquistato tutti. I palestinesi, che lo ritenevano ormai un rudere e un privilegiato, ma che a vederlo soffrire e rischiare la pelle come loro, si sentono nuovamente suoi figli. La comunità araba, che lo ha sempre irriso e oggi invece ascolta rapita su Al Jazira i suoi proclami stentorei a ciclo continuo, conclusi immancabilmente dal mantra «martirio, martirio, martirio!», una tripletta retorica che a noi italiani riporta alla mente il «resistere, resistere, resistere» del giudice Borrelli. Ma il bersaglio grosso della seduzione di Arafat è l’opinione pubblica occidentale. Negli ultimi anni, complice il proliferare dei naziskin, il pensiero unico filoebraico si concedeva ben poche sbavature e Sergio Romano sfiorò il linciaggio verbale quando nel suo libro Lettera a un amico ebreo osò indicare il pericolo che si correva a trasformare il dramma del popolo di Israele in un eterno piagnisteso. Ora il vento è cambiato e soffia proprio dal carcere-set di Ramallah, da quelle gote gonfie e increspate di peluria che invadono i nostri salotti per trasmetterci un vago senso di colpa. Non è un pensiero preciso, per il quale ci vorrebbero letture e riflessioni che il cittadino medio non ha voglia di fare. Piuttosto un’emozione, superficiale ma intensa come tutte le emozioni, che si nutre di immagini che sembrano costruite da una regia abilissima. Aprite un telegiornale qualsiasi, italiano o straniero, dal Tg1 alla Bbc, da Sky News a Cnn. Si comincia con gli elicotteri israeliani che sputano fiamme dal cielo, mentre i carrarmati avanzano fra le macerie di città spettrali fino a puntare i cannoni sulla Basilica della Natività di Betlemme, simbolo estremo del Cattolicesimo e affollata di francescani che telefonano in diretta al ”Costanzo Show” per chiedere aiuto, di palestinesi fuggiaschi e cristianamente accuditi dai francescani medesimi, di giornalisti ostaggi ma armati di telefonini, fra cui il Marc Innaro della Rai che definisce i terroristi «cosiddetti terroristi». Dissolvenza e appare il faccione ispido di Sharon, con le mani a forma di badile che si muovono sulla scrivania come se conficcassero chiodi immaginari. E mentre la voce dello speaker racconta la barbara esecuzione di un’innocua signora palestinese freddata per la strada, ecco apparire una bambina di sei anni con lo sguardo perso nel vuoto: «Le lacrime della piccola Shirin attaccata alla madre senza velo», titolano i giornali con ciglio già umido. Infine, quando la sopportazione è al limite e la trasformazione di Israele in lupo cattivo perfettamente compiuta, arriva sorridente l’Agnello in kefiah: Arafat, fiocamente illuminato nel bunker, costretto all’angolo ma indomito come Rocky prima del round della riscossa. Ce n’è abbastanza per provocare in ogni spettatore delle reazioni inaspettate e per indurre persino un vescovo della concertazione come Bruno Vespa ad affrontare a muso duro l’ambasciatore israeliano in Italia: «Era questo il modo di ripagare le aperture del Santo Padre, mandando i carri armati dove è nato Gesù?». Ancora più stupefacente, narrano le cronache, il comportamento degli automobilisti che transitavano martedì davanti alla sede di Rifondazione durante il sit-in di protesta degli ebrei romani. Insulti, commentacci, colpi di clacson: e nessuna solidarietà, nemmeno un girotondo per le sinagoghe incendiate in Francia e l’antisemitismo risorgente e impunito. Certo, anche in tv qualcuno si ricorda ogni tanto di esprimere dolore per le vittime dei kamikaze. Ma mai col tono accorato con cui sul Tg3 si sente dire che «Arafat è l’unico leader al mondo ad aver offerto il proprio sangue per le vittime dell’11 settembre». A proposito, un colpo mediatico mica da poco anche quello. Strangolata da un’offensiva imprevista, almeno nelle dimensioni, la controinformazione israeliana si difende male, oscillando fra lamentele e goffaggini. A cosa serve fornire ai giornalisti le supposte prove del coinvolgimento di Arafat negli attentati, quando in tv non contano le parole ma solo le immagini e a passare sui teleschermi non sono quasi mai le vittime dei kamikaze ma i soldati occhialuti d’Israele, che si aggirano col passo rigido dei conquistatori fra le rovine dei sobborghi palestinesi? Gli emissari di Sharon vanno davanti al popolo della televisione a lagnarsi per quest’ennesima ingiustizia: «Fate vedere Arafat a lume di candela, ma i nostri morti mai». Ripetono quel che ieri mattina scriveva Renato Farina su ”Libero”, e cioè che «Arafat non è un capo impotente che fa quel che può, poveretto». Ricordano i palestinesi uccisi dalla polizia dell’Agnello fra gli olé della folla, perché sospettati di aver indicato ai soldati israeliani i rifugi dei kamikaze. E con tecnica efficace e quasi berlusconiana, cercano di conquistare l’opinione pubblica con la forza evocativa dei numeri: «Abbiamo avuto 140 morti innocenti in una settimana», urla l’ambasciatore Ehud Gol a ”Porta a Porta”, «che fate le debite proporzioni con gli abitanti, sarebbe come dire 846 italiani. Ebbene, se 846 italiani venissero ammazzati in una settimana dai terroristi, voi che fareste?». Ed è lì che l’ambasciatore dimostra di conoscere male il gioco perverso dei media. Perché, premesso che Arafat e i suoi fidi non sono più da tempo paragonabili alle Br, se l’esercito italiano avesse raso al suolo interi edifici e se nel bunker dei brigatisti accerchiati, al posto dei loro oscuri comunicati, ci fossero state una telecamera, una candela e una patata lessa, chi può escludere che qualcuno avrebbe cominciato a trovarli simpatici? Massimo Gramellini