Francesco Battistini, ཿCorriere della Sera 11/4/2002, 11 aprile 2002
L’ultima volta che Pnina ha parlato con suo marito. «’Pronto, Pnina?”. ”Ciao, Avner: com’è lì a Jenin?”
L’ultima volta che Pnina ha parlato con suo marito. «’Pronto, Pnina?”. ”Ciao, Avner: com’è lì a Jenin?”. ”Va tutto bene, non preoccuparti. E tu?”. ”Aspetto un bambino”. Pnina l’ha registrata nella memoria come una segreteria telefonica, l’ultima volta che ha parlato con suo marito, il sergente Avner Yaskov, operaio d’un kibbutz, spedito nell’inferno di Jenin. Pnina tiene in braccio Mihal, la prima figlia, accarezza la pancia ancora piatta, ”l’ultimo regalo del mio uomo”, e si chiede se avrà la forza d’accettarlo: ”Lunedì, Avner non smetteva di ridere e di gridare ’uahu!’ al telefono. Mi ha detto: ”Siete la mia felicità, il mio spirito, la mia aria”. Poi m’ha promesso che si sarebbe guardato le spalle, che aveva una ragione in più per farlo”. Quando s’è saputo che il sergente non era riuscito a guardare abbastanza bene, e che martedì era morto nell’imboscata di Jenin ai 13 riservisti, i vicini di via Minz hanno sentito un urlo da casa Yaskov. Era la mamma di Avner, non la moglie: ”Io non piango - si fa forza Pnina coi suoi 22 anni -. Guardo Mihal e capisco che non posso permettermelo”».