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 2006  marzo 17 Venerdì calendario

Con un maglione o una coperta in più, il grande freddo è stato superato. Ma, come un ghiacciaio che si ritira, ha depositato detriti grandi come massi sul futuro energetico del nostro Paese

Con un maglione o una coperta in più, il grande freddo è stato superato. Ma, come un ghiacciaio che si ritira, ha depositato detriti grandi come massi sul futuro energetico del nostro Paese. L’inverno scorso, milioni d’italiani hanno fatto i conti con una realtà che non avevano mai preso in seria considerazione: circa l’84 per cento del gas naturale impiegato in Italia proviene dall’estero, trasportato da un sistema internazionale di gasdotti ad alta pressione. Queste lunghissime tubazioni percorrono valli e pianure, scorrono sulle profondità dei mari e, purtroppo, attraversano svariati confini politici. Basta un disaccordo, un inghippo, un problema della più svariata natura, per far sì che qualcuno serri un rubinetto a monte per congelare chi è a valle. cio che è successo durante e in seguito al braccio di ferro tra Russia e Ucraina sul prezzo del gas: l’attrito economico e politico tra i due stati non ha questa volta fatto godere il terzo, ossia il nostro Paese, che ha dovuto affrontare una crisi senza precedenti. Percorriamo quindi a ritroso il sentiero del ”gas perduto” per comprendere in che modo l’Italia si rifornisca del prezioso metano, di come lo gestisca e che cosa intenda fare per garantirsi un futuro con prospettive meno catastrofiche. Partiamo quindi dal primo attore: il gas naturale. Più comunemente chiamato ”metano”, è prodotto dalla decomposizione anaerobica di materiale organico. Di solito si trova assieme al petrolio o in giacimenti autonomi, ma si genera anche in paludi (in questo caso è chiamato anche ”gas di palude”), in discariche, e durante la digestione negli animali. ”Metano” non è appellativo di comodo: dopotutto, è l’elemento più presente nel gas naturale. La combustione di un metro cubo di gas di tipo commerciale produce circa 38 MJ (10,6 KWh) e l’uso che se ne fa è davvero enorme. Non si pensi soltanto alle caldaie o ai termosifoni delle case, ma anche e soprattutto all’energia elettrica che dal calore è ricavata, attraverso turbine a gas e turbine a vapore. Un dato su tutti fa riflettere: nel 2004, l’energia generata dal gas naturale è stata il 52,9 per cento dell’intera produzione termoelettrica. Non soltanto il freddo dobbiamo temere, quindi, ma anche il blackout. Compresa l’importanza del gas naturale, gettiamo un’occhiata ai grandi fiumi che lo convogliano verso lo Stivale. Le principali strutture coinvolte sono sei e si sviluppano globalmente per oltre 4.300 chilometri, sul quale il nostro Ente nazionale idrocarburi (Eni) dispone di diritti di trasporto. E sono proprio gli esperti dell’Eni a guidarci lungo queste lunghissime arterie. «I gasdotti che conducono gas in Italia», ci rivelano, «sono il Tag (Trans Austria Gasleitung) per il gas russo. Il Tenp (Trans Europa naturgas pipeline) e Transitgas per il gas dell’Europa settentrionale. Il Greemstram, il Ttpc e il Tmpc portano invece il gas nordafricano». Una volta giunto nel nostro Paese, il gas è preso in carico da Snam Rete Gas presso i punti di consegna, situati in connessione con le linee d’importazione, col terminale di Panigaglia (di cui parleremo in seguito) e con vari centri di produzione e di stoccaggio. Il gas è quindi trasportato per essere poi consegnato, sulla base delle indicazioni dei clienti, presso 7.000 punti di consegna, connessi alle reti di distribuzione locale e alle grandi utenze industriali e termoelettriche. «La domanda di gas naturale nel 2004 in Italia», rivela Eni, «è stata di circa 80,3 miliardi di metri cubi, con una crescita del 3,8 per cento per l’incremento dei consumi nel settore termoelettrico (+8,9 per cento), l’entrata in esercizio di alcune centrali a ciclo combinato e i maggiori consumi di gas naturale nel settore industriale (+3,4 per cento). I volumi di gas immessi nella Rete Nazionale Gasdotti nel 2004 sono stati pari a 80,4 miliardi di metri cubi con un incremento di 4 miliardi di metri cubi, pari a 5,3 per cento in più rispetto all’anno precedente». E nel 2005 abbiamo raggiunto i 90 miliardi. Ma se le cifre rivelano l’enorme portata di questi ”fiumi di metallo”, non ci raccontano però le loro storie, a volte profondamente innestate in grandi progetti Eni. La mano italiana si rivela soprattutto analizzando i gasdotti nordafricani: il Western Libyan Gas Project e un suo importante segmento, il Greenstream. Il Western Libyan Gas Project è senza dubbio il primo grande progetto per valorizzare il gas naturale libico, commercializzandolo in Europa. L’idea nacque negli anni ’70, quando furono scoperti giacimenti di petrolio e gas naturale lungo la costa. Successivamente, Eni presentò il progetto per lo sviluppo di due campi a gas e condensati, oltre a un sistema di trasporto per esportare 8 miliardi di metri cubi di gas l’anno attraverso il Mediterraneo. Nacque così il Western Libyan Gas Project. Il metano, trasportato dal Greenstream, giunge da due giacimenti: Bahr Essalam, offshore a 110 Km dalla costa libica, e Wafa, nel deserto libico vicino al confine algerino. Eni, con una quota del 50 per cento, è operatore per lo sviluppo congiunto dei giacimenti. L’altro partner con quota paritetica è la National Oil Corporation (Noc), la società petrolifera di Stato libica. A regime si producono 10 miliardi di metri cubi di gas l’anno, di cui 2 miliardi sono destinati al mercato locale e 8 all’esportazione. «Per sviluppare il giacimento di Bahr Essalam», spiegano da Eni, «è stata messa in opera la prima piattaforma offshore per il gas in Libia, chiamata Sabratha, e sono stati perforati in tutto 38 pozzi, di cu 15 dalla piattaforma e 23 sottomarini, per una produzione annua di 6 miliardi di metri cubi di gas?. Con due condotte sottomarine, il metano e i condensati sono trasportati sino all’impianto di trattamento di Mellitah. Una parte va al mercato locale, l’altra raggiunge Gela, in Sicilia, dove è stato costruito il terminale di ricevimento. Ma senza dubbio ciò che più colpisce dell’impresa è proprio il Greenstream, il più lungo gasdotto sottomarino mai realizzato nel nostro mare. Ha un diametro di 32 pollici (81,28 cm), è lungo 530 chilometri e attraversa il mare in punti ove la profondità dell’acqua raggiunge i 1.127 metri. I lavori per la sua costruzione sono cominciati ad agosto 2003. Le operazioni di posa sono durate circa sei mesi e si sono concluse nel febbraio 2004. La realizzazione del gasdotto è stata affidata a Saipem, una società Eni che ha utilizzato le navi Castoro Sei e Crawier per la posa delle condotte e i lavori sulle coste. Se già il Greenstream impressiona, il Blue Stream fa quasi paura per la sua arditezza. Cambiamo locazione geografica e dirigiamoci sul Mar Nero, in Russia. Il progetto (che vede una joint venture tra Eni e Gazprom) prevede la costruzione di un gasdotto lungo 1.250 Km, composto da una condotta da 56 pollici (142,24 cm) e lunga 373 Km attraverso la Russia (di proprietà Gazprom), due condotte da 24 pollici (60,96 cm) attraverso il Mar Nero, e un’ulteriore condotta da 48 pollici (121,92 cm) lunga 470 Km, che si collega alla rete di distribuzione di Ankara. Saipem (la stessa del Greenstream) si è aggiudicata il contratto per la progettazione e larealizzazione. Fiore all’occhiello dell’intera operazione è la nave Saipem 7000, in grado di gestire da sola tutte le operazioni di costruzione in alto mare (vedi a fianco). Blue Stream ha difficoltà senza precedenti. «Le caratteristiche geotecniche, geomorfologiche e batimetriche dei fondali del Mar Nero», rivelano alla Eni, «sono varie e molto impegnative: acque profondissime, ambienti corrosivi per la presenza di acido solfidrico, ripidità delle pendenza e rischi geologici». L’intero sistema è lungo circa 1.250 Km. I 385 Km sotto le acque del Mar Nero toccano una profondità massima di 2.150 metri. Ma i gasdotti si sono rivelati la spina nel fianco dei nostri appetiti energetici. Il futuro sta altrove e ha un nome: rigassificazione. Che cosa significa? Che il gas, se portato a temperature bassissime, diventa liquido. Il gas naturale, ad esempio, liquefa a circa -160° e, finché è mantenuto a questa temperatura, tale rimane, inodore e incolore come l’acqua. Va da sé che una nave speciale, con enormi celle frigorifere, può trasportare gas liquefatto come trasporterebbe petrolio. Una volta giunto a destinazione, la temperatura è alzata, il gas ritorna nella sua forma naturale (cioè rigassificato) ed è più o meno pronto per l’uso. E se si considera che il rapporto in volume gas/liquido è pari a 600/1, si comprendono gli elevati vantaggi economici per trasporto e stoccaggio. Inoltre, addio schiavitù dei gasdotti: si potrebbe importare gas anche da altri mercati, più concorrenziali. Il procedimento, però, è particolarmente impegnativo, sia sotto il profilo economico, sia sotto quello tecnologico. In Italia esiste soltanto un impianto di rigassificazione, il Terminale Gnl (Gas naturale liquefatto) di Panigaglia, in provincia di La Spezia. E sull’argomento, le voci politiche sono unanimi e non si avvertono contrasti sia da destra, sia da sinistra: se una reazione al dominio incontrastato dei gasdotti deve arrivare, è certo che da qui deve partire, dagli impianti di rigassificazione. Il problema adesso più attuale è l’impatto ambientale. Per quanto non siano particolarmente attraenti, i rigassificatori sono comunque costruiti per ridurre al minimo i danni. Per riportare il gas al suo stato naturale, ad esempio, nel terminale di Panigaglia si usano vaporizzatori a fiamma sommersa, che funzionano con il calore prodotto dalla combustione di una parte del gas naturale ricostituito. Questo sistema, meno costoso in termini d’investimento ma molto oneroso gestionalmente, è stato adottato per rispettare i vincoli ambientali che il riguardano il tratto di mare spezino. Persino gli ambientalisti sembra comunque aver detto sì a questo tipo di strutture, di cui c’è enorme bisogno. In discussione ci sono una decina di progetti, e il dibattito è molto vivo su almeno cinque, tra cui quello di Livorno (che sarebbe il primo impianto di rigassificazione offshore al mondo) e quello in Puglia. Reazioni negative per la scelta di Brindisi: meglio sembrerebbe Taranto o vicino alla centrale a carbone di Cerano (che così potrebbe essere riconvertita a gas). Importante è che 30/40 milioni di metri cubi di gas arrivi via nave e passi poi per i rigassificatori. Solo così il ”calore” italiano sarà davvero al sicuro.