MACCHINA DEL TEMPO APRILE 2006, 17 marzo 2006
Pubblichiamo il capitolo conclusivo del libro di Fabrizio Pregliasco e Giulio Divo, Influenza aviaria la grande paura, pubblicato da Sperling & Kupfer (8,80 euro)
Pubblichiamo il capitolo conclusivo del libro di Fabrizio Pregliasco e Giulio Divo, Influenza aviaria la grande paura, pubblicato da Sperling & Kupfer (8,80 euro). Pregliasco, medico e ricercatore specializzato in virologia, e Divo, giornalista scientifico, offrono un quadro completo del rischio pandemia, senza trascendere nell’allarmismo e riflettendo la realtà dei dati. Mentre scriviamo queste righe di chiusura la progressione della malattia è giunta a 132 casi conclamati con circa 70 vittime. di questi ultimi giorni la notizia, non confermata dalle autorità di Pechino, che la situazione cinese sarebbe molto più grave di quella inizialmente ufficializzata (ci sarebbero state 300 vittime contro le 3 dichiarate dalle fonti governative) e che proprio la Cina sia in primissima linea nella lotta contro il virus, al punto da avere predisposto un piano per vaccinare oltre un miliardo di polli e, nel contempo, bruciare le tappe per la realizzazione di un altro prototipo di vaccino utile per prevenire la forma umana della malattia. Ma al di là delle cifre, che si rinnovano con frequenza quasi quotidiana, che cosa dobbiamo veramente aspettarci nel futuro di medio e lungo termine da questo virus? Tentare un’interpretazione sulla base delle conoscenze fin qui acquisite non è semplice, perché in realtà questa situazione non ha precedenti nella storia della scienza. Mai prima d’ora abbiamo avuto la possibilità di pedinare un virus sospetto per cercare di prevenire una possibile pandemia. Al contrario, la storia ci insegna come, fino a oggi, l’umanità si sia sempre trovata di fronte al fatto compiuto, anche se negli ultimi anni la straordinaria tempestività della ricerca medica e della cooperazione sanitaria internazionale ha fatto sviluppare un clima di fiducia circa la capacità comune di far fronte alle emergenze. Basti ricordare quanto avvenuto per la Sars o per l’encefalopatia spongiforme: la collaborazione internazionale è stata fondamentale per arginare il pericolo e, sicuramente, per salvare molte vite agendo con precisione e rapidità nel difficile compito di isolare gli agenti patogeni e predisporre quanto necessario per arginare i rischi di contagio. Ma, nonostante l’indubbio successo scientifico di quelle operazioni, SARS e mucca pazza avevano comunque già fatto il loro esordio sulla scena medica. Per quanto riguarda l’H5N1, invece, abbiamo sì delle vittime umane dovute al virus aviario ma non c’è un virus influenzale umano che deriva dalla mutazione del primo. Lo stato dell’arte è il seguente: stando agli indicatori, possiamo dire che la progressione pandemica della malattia aviaria ha leggermente rallentato il suo corso. Al punto da far presupporre che gli interventi di monitoraggio e prevenzione possano avere già avuto una loro utilità nell’arginare la diffusione animale della malattia. La temuta invasione dell’Europa da parte del virus aviario, infatti, non si è ancora verificata e nonostante le preoccupazioni ora siano giustamente rivolte alla prossima primavera, la sensazione è che le misure adottate abbiano avuto un certo successo profilattico. Sarà possibile arginare ulteriormente la malattia animale prima che causi danni ancora maggiori, specie laddove sta facendo più vittime e, in questo modo, far rientrare definitivamente l’allarme? Su questo punto è autorizzato un certo scetticismo: infatti non appena sembra di avere trovato il modo di limitare, se non estinguere, la malattia in alcune zone dell’Estremo Oriente, nuovi focolai compaiono violentemente in altri allevamenti avicoli di altre regioni in cui non si pensava che il virus fosse ancora giunto. Questo fenomeno ci pone di fronte a una prospettiva non allegra ma realistica: quella per cui il virus H5N1 sia ormai diventato endemico di quelle zone. E che quindi ci si dovrà per forza di cose adattare alla sua presenza, anche se si tratta di una malattia aviaria che ha il suo raggio d’azione piuttosto lontano dalle nostre frontiere. Bisogna però fare una precisazione, circa il pericolo rappresentato dall’influenza aviaria in quanto tale: questa situazione non deve essere troppo mitizzata e quindi strumentalizzata. L’influenza aviaria, nelle sue diverse forme, esiste da sempre, ha colpito dappertutto, anche nei paesi industrializzati del nostro Occidente e in tempi non lontani. Sotto la lente dei virologi, inoltre, ci sono anche altri virus potenzialmente pericolosi quanto l’H5N1, quasi tutti di origine aviaria, che potrebbero allo stesso modo essere suscettibili di una trasformazione in senso pandemico. L’H5N1, insomma, rappresenta solo la punta dell’iceberg virale. E come punta va sicuramente studiata, monitorata e trattata con le dovute attenzioni, ma non costituisce il problema unico ed esaustivo nell’eterna lotta dell’uomo contro i virus influenzali. L’andamento storico di eventi di questo genere, piuttosto, ci spinge ad abituarci all’idea che, ciclicamente, un nuovo virus influenzale possa comparire sullo scacchiere sanitario mondiale e portare con sé un indotto di maggiore patogenicità e mortalità. Lo dimostrano gli studi che hanno preso come riferimento gli ultimi cinquecento anni di storia, documentati anche attraverso i registri parrocchiali delle nascite e delle morti, per avere riprova di come, periodicamente, una pandemia forse d’origine influenzale possa avere colpito nei secoli passati. Quindi se non sarà l’H5N1 potrebbe essere un suo parente. Per quanto riguarda il temuto salto di specie, il discorso è più complesso. Il fatto che l’H5N1 stia diventando un virus endemico negli allevamenti aviari dell’Estremo Oriente aumenta le possibilità che avvenga il temuto riassortimento genetico necessario perché diventi capace di trasmettersi fra esseri umani. Posta in questo modo la frase pare una condanna, ma anche una formulazione del genere deve essere inquadrata in maniera esatta, nella sua prospettiva reale e non schiacciata in un’ottica catastrofista. Allo stato attuale, pare che l’H5N1 sia un virus poco propenso a mutare. sicuramente un virus tenace e molto contagioso per gli uccelli, ma con l’uomo non sa ancora bene come comportarsi. Ha causato delle vittime, è vero. Ma esiste una forte probabilità che le persone venute a contatto con l’H5N1 siano decine di migliaia di volte superiori a quelle che hanno dato gravi segni di contagio. Questo fa presupporre che la sua patogenicità per gli esseri umani sia ancora piuttosto bassa. E ciò offre un vantaggio in termini temporali, se valutiamo il rischio della sua trasformazione in senso pandemico. Un vantaggio quantificabile in quanto tempo? Due o tre anni, secondo gli esperti. Cinque, secondo altri. Emergenza finita, dunque? Assolutamente no: due o tre anni di tempo, tenendo conto delle difficoltà di tipo industriale, scientifico e burocratico che si devono risolvere prima di potersi definire ”pronti” a un evento del genere rappresentano poco più di un battito di ciglia, in termini biologici. Ovviamente due o tre anni di tempo serviranno però a cambiare radicalmente la ”percezione” del pericolo: i media, in questo senso, avranno un compito straordinariamente difficile, altrettanto stimolante e di primaria importanza. Bisognerà cercare di mantenere alta l’attenzione sul tema senza rischiare di saturare il pubblico e senza premere troppo sull’acceleratore dell’emotività per evitare i contraccolpi di carattere socioeconomico che hanno contraddistinto questi ultimi mesi di follia. Lo ha ben spiegato Giulio Giorello nel corso dell’intervista pubblicata al Capitolo 7: i tempi della scienza non possono e non devono piegarsi alle logiche della notizia a tutti i costi. Quello che invece si deve fare è cercare di mantenere aperto un canale di informazione vera e consapevole, in modo che le persone abbiano la possibilità di prepararsi psicologicamente e operativamente alla potenziale ondata pandemica, analizzando i possibili rischi, nonché i comportamenti che possono aiutare a tenere lontano il virus e quindi la malattia. Razionalizzare la paura? Sembra l’uovo di Colombo, ma risulta complicato in questo scenario mediatico. necessario quindi un cambio di approccio mentale nei confronti del problema: si deve iniziare a pensare alla lotta contro la possibile pandemia non come a una cappa nera che da un giorno all’altro è destinata a coprire il mondo intero provocando istantaneamente milioni di vittime. Non è un cataclisma cosmico, un terremoto. Resta ora da vedere quale tipo di virus ci potremmo trovare a combattere. Anche in questo caso effettuare una previsione è azzardato, ma un paio di considerazioni possono comunque aiutare a comprendere le caratteristiche del problema. Si ritiene che durante il passaggio di specie, se questo avverrà, il virus dovrebbe perdere una parte della sua aggressività. L’adattarsi all’organismo umano presuppone anche un’assimilazione ai virus influenzali normali, ragion per cui, in caso di pandemia, è sicuramente prevedibile un maggiore impegno per le strutture sanitarie e anche una maggiore mortalità rispetto agli anni interpandemici, ma non per questo si deve guardare con rassegnazione allo scenario catastrofico di una sciagura che farà sparire dalla faccia della Terra il genere umano. Razionalmente dobbiamo attenderci una stima di vittime che sia quattro-cinque volte superiore alla norma, con una cifra globale che potrebbe aggirarsi attorno alle 15-20.000 vittime in Italia. Più difficile che siano le 150.000 pronosticate a suo tempo, perché trapiantare la patogenicità dell’influenza spagnola sullo scenario attuale è una forzatura, da un punto di vista scientifico. Sono infatti diverse le condizioni sociali, economiche, sanitarie e persino nutrizionali, rispetto a ottant’anni fa. un aspetto che non va trascurato, così come la possibilità di controllare le eventuali sovrainfezioni batteriche attraverso gli antibiotici. Ciò che invece possiamo attenderci è che il virus trovi abbastanza in fretta il modo di resistere agli antivirali: in Giappone, l’unico Paese al mondo in cui il Tamiflu è usato con una certa regolarità, esistono già dei ceppi influenzali resistenti all’oseltamivir. Quindi c’è da supporre che l’uso degli antivirali su scala mondiale finirà con il selezionare ceppi virali capaci di resistere all’uso di questa medicina vanificando, alla lunga, l’utilizzo della stessa risorsa. Per contro, i vaccini dovrebbero assicurare una migliore protezione dalla malattia, anche se il problema sarà quello della loro reperibilità sul mercato. Abbiamo infatti già accennato a come ci vorranno dai tre ai quattro mesi, dopo l’individuazione del ceppo virale pandemico, per avere il primo milione di dosi di vaccino. vero che nei mesi successivi la produzione dovrebbe crescere esponenzialmente, ma esiste il rischio concreto che non si riesca ad arginare la pandemia nel suo covo di origine e che poi la corsa al vaccino diventi una questione assai spinosa, capace di creare tensioni internazionali. Anche perché non esiste un organismo sovranazionale incaricato di coordinare le azioni per combattere l’eventuale pandemia. Resta un’ultima considerazione da fare: un virus pandemico è capace di colpire circa il 30% della popolazione mondiale. Questo significa che il dato statistico va interpretato anche nel microcosmo in cui ognuno di noi vive: ci saranno città fortemente colpite e altre che saranno più o meno risparmiate. Ci saranno condomini in cui la famiglia A verrà colpita dalla malattia mentre quella del vicino B ne sarà stranamente immune. Insomma, i numeri della pandemia devono essere collocati all’interno di un ordine di riferimento. necessario rendersi conto che se anche dovesse arrivare la malattia, questa non costituirà per forza una condanna. Anche la stessa spagnola, la più catastrofica pandemia a memoria d’uomo, aveva un indice di mortalità inferiore all’1% dei casi. I grandi numeri possono impressionare, ma si deve ricordare che vanno diluiti nei numeri, ancora più grandi, degli abitanti del pianeta. E anche se la malattia colpirà milioni di persone, la stragrande maggioranza di loro trascorrerà il periodo di malattia nel proprio letto, sorbendosi un paio di settimane di forti febbri e dolori fastidiosi. Ma, contrariamente agli scenari orribili dipinti a uso e consumo dello scoop, la morte sarà comunque una tragica eccezione. E non certo la regola.