MACCHINA DEL TEMPO APRILE 2006, 17 marzo 2006
Come reagireste se, chiedendo al vostro medico: «Dottore, ho il colesterolo a 260: devo preoccuparmi?», questi rispondesse: «Mah, dipende
Come reagireste se, chiedendo al vostro medico: «Dottore, ho il colesterolo a 260: devo preoccuparmi?», questi rispondesse: «Mah, dipende...»? Comincereste a dubitare di lui e, forse, richiedereste un secondo consulto? Sbagliato. Disponendo di un’informazione incompleta (cioè soltanto dei milligrammi di colesterolo totale per decilitro di sangue, o mg/dl), quel medico vi ha dato in realtà una risposta sensata. Valori elevati di colesterolemia totale possono non essere preoccupanti in sé. Lo diventano se nell’organismo c’è un marcato disequilibrio nel rapporto tra colesterolo ”buono” (o HDL) e ”cattivo” (o LDL): se quest’ultimo, cioè, supera la soglia di 160 mg/dl per i soggetti che non hanno mai subìto un infarto o un ictus e di 70 mg/dl per pazienti ad altissimo rischio, come per esempio i diabetici che abbiano avuto già un infarto. E se, accanto a ciò, coesistono diversi fattori di rischio. «Non sono sempre i livelli assoluti di colesterolo a dover mettere sull’avviso il medico o il paziente», conferma Cesare Sirtori, direttore del Centro Universitario per le Dislipidemie dell’Azienda Ospedaliera Niguarda Ca’ Granda di Milano, «ma piuttosto una combinazione di colesterolo totale moderatamente elevato (intorno a 220-240 mg/ml) unito a fattori di rischio quali: basso colesterolo buono (HDL), diabete, ipertensione, sedentarietà e fumo. Per fornire al paziente una stima del rischio cardiovascolare non basta valutare un parametro singolo. Bisogna considerare la persona nel suo complesso, assieme allo stile di vita che conduce». vero che un’elevata colesterolemia totale va monitorata perché prelude all’insorgenza di malattie cardiovascolari di cui infarto e ictus sono la principale manifestazione. Ma è anche vero che, per diventare patologica, l’ipercolesterolemia deve avere al suo fianco alcuni complici: i fattori di rischio appena citati e, più in generale, uno stile di vita sedentario abbinato a una dieta troppo ricca di lipidi. Non bisogna infine dimenticare l’età: se, in una donna ultrasettantenne un colesterolo totale alto (con valori di HDL compresi tra 70-80) può associarsi a una buona salute vascolare, diverso è il caso di un bambino di 5-6 anni che abbia il colesterolo molto elevato. Per lui, il rischio di complicazioni successive è decisamente molto elevato. Geni, stile di vita e stress Se vale l’associazione dieta-colesterolo alto-aterosclerosi, allora per ridurre il rischio di infarto o di ictus basta diminuire i grassi assunti con il cibo? «Controllare l’alimentazione (senza dimenticare i grassi vegetali, specie se idrogenati!), o fare regolarmente moto e non fumare, è senz’altro benefico» ribadisce Riccardo Sarzani, professore associato di Medicina Interna all’Università Politecnica delle Marche, del Centro Ipertensione, Dislipidemie e Malattie Cardiovascolari degli Ospedali Riuniti di Ancona. «Se però l’ipercolesterolemia è genetica, la quota di lipidi assunta con i cibi è, nel complesso, poco rilevante». Chi soffre di ipercolesterolemia familiare eterozigote, una patologia ereditaria che anche in Italia colpisce circa uno ogni 500 nati (gli omozigoti, in cui entrambi i geni sono mutati, sono rarissimi), ha una ridotta funzionalità del recettore per le LDL (rLDL) causata da mutazioni in uno dei due geni rLDL che ognuno di noi possiede. «Sono note centinaia di mutazioni diverse nel gene per questo recettore» precisa Sarzani «e tutte producono più o meno lo stesso effetto: inattivano il 50 per cento circa dei recettori per le LDL che la cellula produce. Perciò, a livello cellulare viene riassorbito il 50 per cento in meno di LDL circolanti, che si accumulano nel sangue finendo per depositarsi sulle pareti delle arterie dove ha inizio il processo aterosclerotico». Senza un dosaggio ematico del colesterolo gli eterozigoti per questa mutazione sono spesso ignari dei rischi che corrono. «Un indizio visibile c’è», avverte Sarzani. «Sono i cosiddetti xantelasmi: cellule (chiamate macrofagi) piene di colesterolo che si accumulano nella regione palpebrale, diventando visibili come strie rilevate e giallastre». Nella storia del colesterolo, però, esistono anche mutazioni buone come apoA-1M (M come Milano): individuata negli anni Settanta da Cesare Sirtori, è comune a molti abitanti di Limone sul Garda che vantano un ridotto rischio di aterosclerosi, infarto e ictus. «L’apoA-1M», commenta il medico, «è una componente delle HDL, le particelle che rimuovono il colesterolo dal sangue, molto efficiente nel ”sciogliere” le placche aterosclerotiche. Osservando ciò che questa variante riusciva a fare naturalmente, si è pensato di produrla artificialmente e di testarla sull’uomo. I risultati sono stati davvero promettenti». Oltre alla genetica e allo stile di vita, però, va tenuto in debito conto anche l’ambiente. Uno studio compiuto su 199 soggetti seguiti per tre anni, e pubblicato di recente dalla rivista Health Psychology, ha rilevato che lo stress può far impennare i livelli di colesterolo in modo indipendente dagli altri consueti fattori di rischio. Paese che vai, rischio che corri C’è modo di calcolare il rischio cardiovascolare individuale (la probabilità che un individuo subisca un infarto o un ictus nei 10 anni successivi all’indagine)? Sì, mediante algoritmi matematici che tengono conto della combinazione di singole variabili: età, sesso, stile di vita e, ovviamente, colesterolemia. Diversi Paesi hanno allestito task force per la prevenzione del rischio cardiovascolare e i loro protocolli sono oggi applicati dai medici di base nella valutazione dei loro pazienti. «In Italia», riassume Sirtori, «si usa CUORE (www.cuore.iss.it), un software dell’Istituto Superiore di Sanità adatto a uomini e donne di età compresa tra i 40 e 69 anni senza precedenti cardiovascolari. Dopo aver valutato le diverse variabili, CUORE suddivide i soggetti in cinque categorie di rischio: nella prima, la più bassa, il 5 per cento circa delle persone potrebbe statisticamente ammalarsi, mentre in quella più alta la percentuale di rischio tocca il 30 per cento. Volendo fare un esempio concreto, usando CUORE si ottiene che, su 100 donne cinquantenni, fumatrici, non diabetiche e non ipertese, con colesterolo totale pari a 300mg/dl e HDL pari a 60 mg/dl, meno del 3 per cento rischierebbe un evento cardiovascolare a dieci anni dall’indagine». Lo stesso caso clinico, però, negli Stati Uniti otterrebbe valori assai diversi. Come mai? Chiarisce Sirtori: «Effettivamente il protocollo del Framingham Heart Study (www.framingham. com/heart), messo a punto in USA, è assai più pessimista: con gli stessi valori dell’esempio precedente fornisce un rischio cardiovascolare più che triplo. Viceversa il Münster Heart Study, o ProCam (http://chdrisk.uni-muenster.de), realizzato in Germania, si colloca a metà fra i precedenti. Si tratta di differenze su cui ancora si discute molto, che creano parecchi problemi riguardo alla rimborsabilità dei farmaci ipolipidemizzanti da parte delle strutture sanitarie». Chimica e natura a confronto Che sia genetico o causato dallo stile di vita, il colesterolo si può ridurre. Con la cosiddetta nutraceutica o con farmaci di sintesi. «Conosciamo diverse sostanze vegetali attive sul colesterolo», precisa Sirtori. «Si va da proteine derivate dalla soia, attive sui recettori per le LDL; al lupino (Lupinus albus), attivo sui recettori LDL, che in passato era usato dai soldati romani come fonte proteica e dal quale, oggi, si ricavano spaghetti e sostituti del latte. Ci sono infine i fitosteroli, presenti in frutta secca e oli vegetali e, da poco, anche in alimenti arricchiti artificialmente, che possono contribuire validamente al controllo del colesterolo nel sangue. Perché gli effetti siano percepibili, però, il quadro clinico non deve esser già devastato». Quando infatti la dieta non basta entrano in gioco i farmaci. Nel caso del colesterolo si tratta principalmente delle statine (pravastatina e simvastatina ottenute per fermentazione di funghi, fluvastatina e atorvastatina sono invece sintetiche). «Un cibo arricchito con sostanze vegetali non può curare un soggetto fortemente ipercolesterolemico, iperteso e magari con diabete» mette in guardia il professor Sarzani. «In questi casi la scelta cade sulle statine, che inibiscono la sintesi epatica del colesterolo agendo su un enzima chiave. Così inducono la cellula a produrre più recettori per le LDL per captare la sostanza e favoriscono l’eliminazione del colesterolo dal circolo». Nella lotta al colesterolo le statine non sono le uniche medicine: c’è anche l’ezetimibe, una molecola che agisce tanto sulla sintesi quanto sull’assorbimento intestinale di colesterolo. E poi, in fase di sperimentazione o prossimi a entrare sul mercato, ci sono i farmaci che, come l’apoA-1M, agiscono stimolando la concentrazione di HDL, il colesterolo buono: il torceptrapib della Pfizer, il JTT-705 della Roche o l’apoA-1 sintetica della Lipid Sciences. Il tutto, affiancato da tecnologie di imaging, come la ultrasonografia intravascolare (IVUS), che permette di osservare e misurare la crescita o il riassorbimento dei depositi lipidici sulla parete delle arterie. La guerra al colesterolo continua...