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 2002  marzo 27 Mercoledì calendario

In Cina circolano soltanto cinque milioni di automobili e per qualcuno è già troppo, Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2002 Hong Kong

In Cina circolano soltanto cinque milioni di automobili e per qualcuno è già troppo, Il Sole 24 Ore, 27 marzo 2002 Hong Kong. Li e Zhang sono marito e moglie. Sono due professori universitari e guadagnano suppergiù 2.500 renminbi al mese ciascuno, circa trecento dollari. Qualche tempo fa, hanno acquistato una macchina, la prima della loro vita: «Dopo tre anni di duri risparmi siamo riusciti a comprarci una Santana. Di seconda mano, però, perché costava la metà di quella nuova». Anthea è una buona hostess. Ha un buon salario e da un paio di anni si aggira per Pechino con una Honda Accord: «L’ho pagata un occhio della testa. Ma me lo posso permettere, perché con il mio lavoro in questo paese sono ancora una privilegiata». Stanley gestisce una palestra. Gli affari ultimamente hanno iniziato a girare piuttosto bene, e così si è comprato una Xialì nuova di zecca: «L’ho scelta perché era tra i modelli più a buon mercato: poco più di 40mila renminbi». Oggi, in Cina, o meglio nelle grandi città del Paese, storie come queste appartengono ormai all’ordinaria quotidianità. Lo sviluppo economico ha generato nuova ricchezza tra i privati, facendo emergere una classe media che sta andando a formare un esercito di consumatori. Così il sogno delle grandi case automobilistiche mondiali ha cominciato finalmente a prendere forma: dare una vettura a un popolo che, quando era fortunato, poteva permettersi al più una scassata bicicletta. «Il modello di evoluzione dei consumi è chiaro. Negli anni 80 la gente cominciò a comprare elettrodomestici. Poi negli anni 90 venne il turno degli appartamenti. Ora ci sono tutte le premesse per il boom dell’automobile», spiega Stanley Jia, esperto del settore per lo studio legale Baker & McKenzie. Il governo ha deciso di sostenere questo boom. Dopo aver snobbato a lungo le quattroruote, nel 1994 Pechino ha deciso infatti di inserire l’automobile nel novero delle industrie strategiche per lo sviluppo del Paese. E nel nono Piano quinquennale, varato nel 1996, si è posto esplicitamente l’obiettivo di costruire una forte industria nazionale. Nel contempo, ha aperto le porte del proprio mercato alle grandi case automobilistiche mondiali. « stata una scelta obbligata, perché senza tecnologia straniera il settore non avrebbe avuto, come del resto non avrà in futuro, alcuna possibilità di espansione», avverte Grace Mak, analista di Merrill Lynch. Da allora, tra i colossi delle quattroruote si è aperta la corsa verso la Grande Muraglia. Nessuno ha badato a spese: a partire dalla prima joint venture siglata nel lontano 1983 tra Beijing Automobile Plant e Chrysler, sono sbarcate in Cina oltre 20 aziende straniere. Che finora hanno investito complessivamente circa 45 miliardi di dollari nel settore automotive (compresi camion, bus e trattori) e nel suo indotto; di questi, circa 12 sono stati destinati al comparto delle vetture passeggeri. Mentre gli stranieri passavano la frontiera alla ricerca di partner affidabili con cui stabilire una joint venture, la Cina ha tentato di mettere ordine all’industria automobilistica nazionale. Un vero e proprio bailamme, dove operano oltre un centinaio di produttori che si fanno guerra uno con l’altro, sfornano volumi bassi e generano scarsi profitti, se non addirittura perdite. Per questa ragione, già da oltre un lustro, il governo ha deciso di razionalizzare energicamente l’industria dell’automobile: entro cinque anni la miriade di aziende e aziendine (quasi tutte a capitale pubblico) che compone il settore più fragmentato al mondo dovrebbe essere spazzata via per lasciare il campo alle tre cosiddette big three nazionali: First Automotive, Dongfeng Automotive e Shanghai Automotive. Ma di fatto l’operazione pulizia non è mai neppure cominciata. Per una buona ragione: che le industrie auto rappresentano al tempo stesso la spina dorsale e il fiore all’occhiello delle Province cinesi. Chiuderle significherebbe dunque assestare un duro colpo, anche in termini occupazionali, a diverse aree del Paese, che spesso sono già alle prese con una difficile situazione congiunturale. Ecco perché le autorità stanno avversando con ogni mezzo il processo di consolidamento avviato dal Governo centrale. «Molte di queste aziende versano in condizioni finanziarie disperate, e si reggono in piedi solo grazie ai fondi erogati dalle autorità locali», dice un esperto del settore. Ma dove non ha potuto la lunga mano di Pechino, ora potranno le forze del mercato. L’adesione della Cina alla Wto imporrà infatti un brusco cambio di marcia nell’industria automobilistica nazionale. Le tariffe all’importazione di vetture all’estero, che fino a due anni fa erano ancora del 100 per cento, hanno già cominciato a scendere sensibilmente. Ed entro il 2006 si ridurranno al 25 per cento; per quella data, inoltre, le quote all’import spariranno del tutto. «Per quanto protette, le aziende domestiche non potranno resistere al grande cambiamento in atto. L’apertura del settore alla concorrenza estera spingerà il settore a realizzare maggiori economie di scala, i prezzi scenderanno, la domanda aumenterà e il mercato diventerà più efficiente. A quel punto, neppure il sostegno dei Governi locali basterà a tenere in vita i produttori marginali», osservava Yale Zhang, consulente di Automotive resources Asia. Ma ben prima che iniziasse la rivoluzione Wto, un altro moto sotterraneo aveva già dato la scossa all’industria automobilistica cinese: quello dei consumatori. Per anni, i produttori avevano ignorato il grande pubblico e si erano concentrati prevalentemente sui grandi clienti: enti pubblici, uffici governativi, aziende di Stato. Verso la fine degli anni 90, però, la musica è cambiata. Migliaia di colletti bianchi, piccoli imprenditori, artisti, operatori della moda, hanno deciso di acquistare una vettura. A quel punto, i big mondiali delle quattroruote hanno compreso che il mercato cinese stava per entrare in una nuova era. E così hanno adattato rapidamente le loro strategie alle nuove condizioni di mercato. Se si considera che oggi il parco auto circolante in Cina non arriva a 5 milioni, vale a dire l’equivalente di quello di Belgio e Lussemburgo; che nel Paese c’è qualche decina di milioni di persone con un reddito già sufficiente all’acquisto di una vettura; che solo l’1 per cento dei residenti nelle grandi città possiede un’auto; che il 32 per cento di questi ultimi ne ha già programmato l’acquisto nei prossimi 5 anni, la conclusione è una sola: la Cina sarà il grande mercato del futuro. «Per questo motivo, tutti i grandi produttori mondiali saranno obbligati ad avere i loro impianti in Cina, perché non si può pensare di servire un mercato come questo senza seguirlo da vicino», sostiene Stanley Jia. L’ultima a far tesoro delle lezione è stata la Fiat che ha appena coronato la sua ventennale presenza nel paese entrando anche nel settore dell’auto passeggeri: da un paio di mesi , il gruppo italiano ha iniziato a produrre la Palio nel nuovo stabilimento di Nanchino frutto della joint venture con il gruppo Yuejin. La prossima a tentare lo sbarco sarà quasi sicuramente la Bmw. Ma, come tutti i grandi fenomeni che attraversano la Cina, anche quello dell’auto ha il suo rovescio della medaglia. Se il mercato continuerà a crescere a questi ritmi forsennati, nel giro di un decennio il parco auto nazionale sfiorerà i 30 milioni. E per quanto la ricchezza riuscirà a propagarsi e distribuirsi anche fuori dalle città più opulente, la gran parte delle vetture saranno proprio concentrate nei centri urbani. «Purtroppo, l’automobile non è come la lavatrice o la televisione. un bene di consumo che si porta dietro a cascata un sacco di problemi. L’inquinamento, innanzitutto. Ma poi anche la necessità di adeguare le infrastrutture, di importare sempre maggiori quantità di petrolio, di gestire il traffico. Non c’è dubbio che entro 15 anni l’auto per la Cina diventerà una vera e propria questione sociale», ammonisce con lungimiranza Yale Zhang. Insomma, senza adeguate contromisure, le città cinesi rischiano di diventare qualcosa di molto simile a quegli inferni di smog, ingorghi e nubi puzzolenti in cui si sono trasformate da tempo altre metropoli asiatiche come Bangkok, Jakarta e Manila. Ma i cinesi, che in quanto a pianificazione non hanno eguali al mondo, hanno deciso di giocare d’anticipo. La prima ad alzare la guardia è stata una delle città più a rischio: Shanghai, che ha già imposto un limite di 30mila vetture alle immatricolazioni annue. Luca Vinciguerra