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 2002  aprile 09 Martedì calendario

Morterone, 33 abitanti e un municipio part-time, la Repubblica, martedì 9 aprile 2002 Morterone. Erano vent’anni che non capitava nulla del genere, ma tutti sapevano che prima o poi sarebbe successo

Morterone, 33 abitanti e un municipio part-time, la Repubblica, martedì 9 aprile 2002 Morterone. Erano vent’anni che non capitava nulla del genere, ma tutti sapevano che prima o poi sarebbe successo. Adesso ci siamo. Giada ha compiuto sei anni: deve cominciare le elementari. Ecco, il fatto è che Morterone non ha una scuola. A dire la verità non ha neanche l’ufficio postale, neanche il bar, neanche il tabaccaio, neanche la farmacia. «Non mi chieda cosa ci manca - dice il papà di Giada - faccio prima a dirle cosa abbiamo. Si fa presto: non abbiamo niente». Secondo il censimento Istat, questo paesino in provincia di Lecco è il comune più piccolo d’Italia: 33 abitanti. O meglio: residenti. Perché se contiamo quelli che abitano davvero a Morterone tutto l’anno, quelli che alla prima neve non abbandonano il monte Resegone per scendere a valle fino a primavera, allora invece dei numeri si possono fare i nomi: Augusta Manzoni e il figlio Arturo, Mario Valsecchi e Achille Invernizzi. Più Giada, si capisce, con papà, mamma e Giorgia, la sorellina di nove mesi. Otto abitanti in tutto il paese. Più 19 mucche, 6 cani, 23 pecore e 86 galline. Servizi pubblici: zero. Negozi di alimentari: zero. Aree verdi: 408 mila metri quadrati a testa. Una densità da deserto mauritano. Se cercate la solitudine allo stato puro, venite qui e la troverete: in tutto il paese, a mezzogiorno di un lunedì d’aprile, c’è meno gente di quanta ce ne sia nel vostro condominio la notte di Ferragosto. è così piccolo, il paese, che il suo cimitero è grande quanto un cortile. Tra le dodici case attorno alla chiesa, con i tetti spioventi e le finestre che sembrano feritoie, il silenzio si può davvero tagliare col coltello, come il taleggio che si fa quassù. Un buon formaggio, col sapore della montagna, al quale qualcuno aveva pensato di dare il nome dei produttori, come la pasta De Cecco o il salame Negroni. Purtroppo non si può. Gli allevatori di Morterone hanno un cognome che non si può adottare come marchio: si chiamano tutti Invernizzi. «Una volta, quando io ero bambino - racconta il sindaco, Palmino Invernizzi, 51 anni - c’era anche il carbone. Ci lavoravano più di trecento persone, e lo portavano giù a Lecco sui muli. Allora avevamo anche la scuola elementare. Me lo ricordo bene, perché io dopo la quinta feci anche la sesta, un anno in più perché la maestra non perdesse il numero minimo di alunni. Ma non bastò. Dopo qualche anno la trasferirono, e la scuola fu chiusa definitivamente». Dopo la scuola, sono scomparsi il tabaccaio, l’ambulatorio della Usl, il telefono pubblico e il negozio di alimentari. L’ultimo ad alzare bandiera bianca è stato il ristorante ”Il Resegone”, sulla cui porta c’è ancora attaccato un cartello: «Questo esercizio ha cessato la sua attività. Ringraziamo l’affezionata clientela...». Il portone della chiesa della Beata Vergine Assunta si apre solo la domenica, quando don Agostino sale da Lecco per dire messa (qualche volta a un solo fedele), mentre il municipio - con i muri pastello e le finestre verdi, proprio un bell’edificio se non fosse deserto come Fort Alamo dopo l’assalto dei messicani - apre i battenti di quando in quando, perché il sindaco, gli assessori e il segretario comunale in realtà si danno appuntamento giù a valle, in una stanzetta benignamente concessa dal comune di Ballabio. E visto che l’unica impiegata, la Betty, è part-time, un giorno sì e uno no chi chiama il municipio si sente rispondere così: «Questa è la segreteria telefonica del Comune di Morterone...». Il sindaco allarga le braccia: «Ormai siamo come una candela. Se si spegne, è finita». Certo, potrebbero salire quassù. Ma per fare quei quindici chilometri di tornanti che conducono al paese ci vogliono tre quarti d’ora e un buon clacson, perché la strada è così stretta che nessuna corriera ha mai osato affrontarla. Poi, quando c’è la neve, uno può fare la fine di quella famiglia che a metà della salita, dieci anni fa, fu investita dalla slavina, e non sempre la fortuna è così generosa: la macchina si ribaltò, scivolò sul tetto come un bob in pista e scaraventò i suoi quattro prigionieri contro i faggi del pendìo, ammaccati ma salvi. Il tempo scorre lento, quassù. Il netturbino non c’è. Un vigile non s’è mai visto. Il postino suona solo una volta, il lunedì. Camminando tra le case, l’unico rumore che sentirete sarà l’eco dei vostri passi. Adesso che il censimento ha dato a Morterone quel che è di Morterone - il titolo di comune più piccolo d’Italia - la domenica il paese si anima di curiosi, e la trattoria dei Cacciatori della famiglia Invernizzi serve la sua lepre in salmì a cinquanta persone, felici di appendere le loro giacche agli zoccoli di capriolo dell’attaccapanni. Poi, dopo il grappino, tornano tutti giù a valle, e lasciano il papà di Giada solo con i suoi sogni: un pulmino che accompagni sua figlia a scuola, un medico che salga due volte al mese, un postino che venga due volte la settimana, qualcuno che venda qualcosa negli altri giorni. A chiunque, dopo essere stato quassù, verrebbe voglia di provare il contrario. Non è difficile, assicura l’Istat. Basta scendere di 800 chilometri verso Sud, alle falde del Vesuvio, e trovare il cartello del comune di Portici. Nello stesso spazio in cui vivono undici morteronesi, cioè quattro chilometri quadrati e mezzo, devono starci tutti i suoi 58.905 abitanti, ciascuno dei quali può contare - comprese le strade, le piazze, i giardini, lo stadio, la spiaggia e i dirupi - su 76 metri quadrati di territorio comunale. Un bivani a testa, contro la tenuta di quattro ettari che tocca al morteronese standard. Come facciano a starci 13 mila persone in un chilometro quadrato - record superato solo da Hong Kong e Tokyo - non lo sa nessuno. Forse bisognerebbe chiederlo a quei ventimila che dal 1980 in poi sono scappati via da Portici, non riuscendo più a sopportare quella che ormai è ufficialmente la più alta densità di abitanti dell’intera Italia. «In effetti vent’anni fa qui la vita era insopportabile» conferma il sindaco, il diessino Leopoldo Spedaliere. «C’era degrado, abbandono, disoccupazione, delinquenza. Il caos, insomma. Oggi, diciamo la verità, con ventimila cittadini in meno si vive meglio. Modestamente, non c’è paragone con Castellammare o Pozzuoli, tanto per fare due nomi». La cittadina ai piedi del Vesuvio che Carlo III di Borbone scelse nel 1738 per costruirvi la sua reggia estiva conserva le tracce del suo aristocratico passato in mezzo a un dedalo di stradine che lambiscono palazzine a cinque, sei o sette piani, una ragnatela urbana dove la vera svolta della giornata è trovare un parcheggio, rubandolo a una delle trentamila macchine che circolano, o tentano di circolare, da queste parti. «Se si blocca una strada, si ferma tutta la città» spiega sconsolata una vigilessa, svelandoci il mistero dei semafori di Portici, tutti nuovi ma tutti spenti: «Quando li accendiamo, l’ingorgo è automatico. Meglio affidarsi all’autodisciplina degli automobilisti». Pare che funzioni. Quanto all’abusivismo edilizio, ormai è un ricordo del passato. Più della legge dello Stato, ha funzionato quella dell’impenetrabilità dei corpi: qui non c’è più spazio per mettere un solo mattone. Però basta passeggiare per le vie del centro, o fare il giro di piazza San Ciro, per accorgersi che qui sono in tanti, e staranno pure stretti, ma non si fanno mancare nulla. C’è uno stadio da diecimila posti, la facoltà di Agraria, 873 negozi, 13 banche, 28 bar, 19 ristoranti, 17 farmacie e 14 scuole (che hanno regalato a Portici il suo secondo record, quello del comune col più basso indice di analfabetismo). Sulla piazza rotonda, accanto alla chiesa, si affacciano una sull’altra le sedi di cinque partiti, due ricevitorie del lotto, due edicole, tre bar, un tabaccaio, una banca, un’impresa di trasporti funebri e il centro abbronzante ”Inferno Giallo” (diretto concorrente del Beauty Club ”Lampados”). In mezzo, la fermata dove un migliaio di studenti, all’ora di pranzo, danno l’assalto al filobus. Poi, certo, c’è la camorra. Ce lo ricorda, senza nominarla, quel cartello all’ingresso della città: «Comune sottoposto a videosorveglianza e telecontrollo ambientale». Ma le 25 telecamere piazzate negli angoli di Portici non hanno impedito al clan Cozzolino di mettere le bombe davanti alle boutique del clan Vollaro, né hanno evitato le pistolettate del clan Vollaro alle vetrine dei negozi protetti dal clan Cozzolino. «Adesso però li abbiamo arrestati tutti e due, i capiclan» ricorda soddisfatto il vicequestore Angelo Lamanna, numero due del commissariato di Portici, sperando che quelle manette abbiamo fermato, almeno per un po’, la guerra tra le due bande rivali. Certo, la droga continua a circolare. Certo, un paio di rapine al mese ci sono lo stesso. Certo, i commercianti seguitano a pagare in silenzio il pizzo (solo una denuncia negli ultimi due anni). Eppure il vicequestore è il primo a sapere che potrebbe andare peggio. «Mi creda, io sono stato nei commissariati di Afragola, di Secondigliano, di Scampia, e davvero non c’è paragone: qui si vive meglio, molto meglio». Il sindaco è soddisfatto. Il poliziotto è soddisfatto. La vigilessa è soddisfatta. Chissà cosa ne penserebbe il papà di Giada. Forse un giorno prenderà il treno e verrà anche lui da queste parti, per mostrare a sua figlia l’altra faccia dell’Italia dei numeri. Sebastiano Messina