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 2006  marzo 16 Giovedì calendario

A spasso per Minzu Road, Jianguo Road e Ziyou Road, che un tempo si chiamavano via Nazionale, Corso Vittorio Emanuele III e via Roma, scambiamo sguardi incuriositi e un po’ diffidenti con poliziotti dalle gote rubizze che portano i loro colbacchi ben calcati sulla testa

A spasso per Minzu Road, Jianguo Road e Ziyou Road, che un tempo si chiamavano via Nazionale, Corso Vittorio Emanuele III e via Roma, scambiamo sguardi incuriositi e un po’ diffidenti con poliziotti dalle gote rubizze che portano i loro colbacchi ben calcati sulla testa. Fa davvero molto freddo. Pochi lo sanno, ma Tianjin, città di 10 milioni di abitanti a un centinaio di chilometri da Pechino, conserva da oltre un secolo un cuore italiano. Un cuore che continua a pulsare nonostante sia soffocato dalla selva di grattacieli che ormai lo stringono da ogni parte. un quartiere fatto di palazzetti in stile liberty e belle villette a due piani, una caserma imponente e un forum per il gioco della pelota. Piccoli capolavori di architetti italiani destinati a rendere confortevole la vita dei nostri connazionali, militari e civili, lì residenti agli inizi del ’900. Oggi patrimonio di inestimabile valore messo nelle mani esperte di una società italiana, Sirena (di cui fanno parte Regione Campania, Comune di Napoli, Associazione Costruttori e Unione Industriali della provincia di Napoli), che lo sta restaurando e recuperando. Ma prima di raccontarvi del quartiere italiano di Tianjin e di coloro che lo stanno salvando dall’oblio, bisogna fare un piccolo passo indietro, a quell’estate del 1900, quando la storia del nostro Paese si intreccia, in circostanze perlomeno drammatiche, con quella cinese. Già da qualche mese una società segreta, figlia della famosa società del ”Loto Bianco”, andava reclutando milizie tra i contadini allo scopo di contrastare lo strapotere economico di inglesi e francesi. I due Paesi erano presenti nel Celeste Impero dalla metà del XIX secolo e, essendo usciti vincitori dalle Guerre dell’Oppio, esercitavano i loro traffici liberamente, senza dar conto a nessuno. Con un pizzico di retorica mista alla forza di persuasione di maghi e sedicenti sciamani, i contadini si erano lasciati convincere che grazie alle sole arti marziali e senza uso di armi avrebbero potuto avere la meglio sul nemico. Così cominciarono ad assaltare i luoghi chiave degli interessi stranieri, a Pechino, a Tianjin, poi nello Henan, nello Shanxi e nella Mongolia Interna. Presto si seppe di loro anche in Occidente, dove divennero famosi col nome di ”Boxer” proprio per la loro prerogativa di utilizzare solo le mani, in battaglia. Quando la pressione si fece troppo forte e le legazioni straniere presenti a Pechino furono poste sotto assedio, le potenze occidentali decisero di reagire. Era il giugno del 1900. Un primo contingente di 2.000 uomini, sotto il comando dell’Ammiraglio Seymour, fu inviato a Pechino. L’imperatrice cinese Cixi (figura quanto meno oscura e sfuggente che dalla ”rivoluzione dei Boxer” aveva solo da guadagnare), tentò allora di risolvere il conflitto per via diplomatica, ma era evidente che la miccia, una volta accesa, non si poteva più spegnere. Dunque il 21 giugno fu ”costretta” a dichiarare guerra agli occidentali. Le potenze straniere (ormai erano arrivate anche l’Italia, la Russia, la Germania, l’Austria, il Giappone e gli Stati Uniti) potevano contare su un totale di 16.000 uomini e il 14 agosto entrarono a Pechino, ponendo fine a 55 giorni di violenze e devastazioni. Anche se, sappiamo dalle cronache dell’epoca, furono poi gli occidentali a lasciarsi andare a saccheggi e scempi, forse addirittura peggiori di quelli commessi dagli stessi Boxer. L’imperatrice scappò a Xi’an travestita da contadina e progressivamente i cannoni si zittirono. Dopo parecchi mesi, nel settembre del 1901, Cixi fu messa di fronte alle proprie responsabilità ma negò di avere spalleggiato anche solo ideologicamente i Boxer. L’abiura della causa cinese non le valse però il plauso della coalizione straniera che, al contrario, le impose la firma di un accordo di pace-capestro: il ”Protocollo dei Boxer”. Con quell’atto, la Cina concedeva alle potenze straniere delle ”Concessioni” nella zona di Tianjin. Con questo nome si indicavano speciali aree di influenza in cui a ogni Paese occidentale era consentito applicare il proprio diritto, commerciare liberamente e avere autonomia politica e persino di polizia. L’area italiana nacque formalmente nel 1902 (e fu poi abbandonata nel 1947, in seguito alla firma del trattato di pace di Parigi), occupava un’area di 50 ettari ed entro i suoi confini vi abitava qualche centinaio di persone provenienti dal nostro Paese più alcuni europei e, per la maggior parte, personalità cinesi. Oggi quel quartiere, bello ed elegante, occupa ancora il suo posto su un’ansa del fiume Hai he. Non l’ha demolito la storia, non l’ha demolito il pauroso terremoto del 1976 che ha invece azzerato altre concessioni e non l’hanno buttato giù neanche i cinesi che, in omaggio al loro proverbiale senso degli affari, intendono farne un grande ”business & leisure park”. Una zona d’affari e divertimento. Lì, infatti, vedrà la luce un grande polo del made in Italy, cioè un centro di aggregazione di aziende che producono vestiario, scarpe e articoli che hanno reso il nostro Paese famoso e apprezzato nel mondo. Prima, però, bisogna dare una risistemata ai palazzi... «Sirena ha avuto l’appalto per il restauro di 22 edifici della concessione italiana (sono complessivamente una ottantina, ndr)», spiega l’architetto Bruno Discepolo, presidente della società partenopea. «Di questi 12 sono stati completati e per i restanti sono stati già approntati i necessari progetti di recupero. Speriamo solo che in futuro i cinesi ci diano anche l’opportunità di intervenire sugli interni, oltre che sugli esterni dei palazzi». Sì, perché l’accordo firmato con la Municipalità di Tianjin prevede, per ora, di lasciare agli italiani solo l’opera di make-up generale del quartiere mentre sugli interni e soprattutto sullo sfruttamento commerciale degli edifici i cinesi vogliono avere l’ultima parola. Così se la gigantesca caserma Carlotto, intitolata a un ammiraglio italiano vissuto all’epoca della Concessione, ospiterà una mostra permanente sul recupero di Tianjin, il bellissimo Forum per il gioco della pelota in stile Fascista, costruito nel ’32, che si trova vicino a ”Piazza Marco Polo” sarà trasformato, pare, in un karaoke... Che dire, pur di salvare la storia va bene anche questo.