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 2006  marzo 16 Giovedì calendario

La parola ”indifferenza” non fa rima con Napoleone Bonaparte, che come pochi altri personaggi della storia ha suscitato grandi entusiasmi e odi profondi

La parola ”indifferenza” non fa rima con Napoleone Bonaparte, che come pochi altri personaggi della storia ha suscitato grandi entusiasmi e odi profondi. Geniale stratega, abilissimo statista, profondo innovatore, fine psicologo. Ma anche tiranno inflessibile e condottiero spietato, uno che, dopo aver diffuso gli ideali della Rivoluzione Francese in mezza Europa, deluse moltissimi mettendo tutto a ferro e fuoco pur di realizzare i suoi obiettivi politici. Un uomo con il quale, anche se magari lo ignoriamo, abbiamo a che fare quotidianamente, tale è stata l’impronta che ha lasciato nella società contemporanea. Abbiamo perciò chiesto ad alcuni esperti di accompagnarci nella riscoperta di questa importante eredità, dal potere al diritto, dalla strategia alla cultura. A partire da Ernesto Ferrero, saggista e direttore della Fiera Internazionale del Libro di Torino, che a Napoleone ha dedicato N, un romanzo sull’esilio elbano (vedi box a piè di pagina) e Lezioni napoleoniche – Sulla natura degli uomini, le tecniche del buon governo e l’arte di gestire le sconfitte (Mondadori, 8,40 euro). In N, attraverso il suo alter ego Martino Acquabona, ha ”osservato” Napoleone da vicino per 300 giorni. Quali erano i pregi e i segreti della sua personalità? «Napoleone era un borghese e arrivava dalla Corsica, un contesto difficile e travagliato: due elementi chiave per capire la sua volontà di rompere le catene ed evadere, che è alla base delle sue grandi motivazioni. A queste vanno naturalmente aggiunte capacità personali fuori dal comune, a partire dall’organizzazione del pensiero. Lui stesso parla della propria memoria, che era prodigiosa, come di una cassettiera, i cui cassetti equivalevano ai file di oggi. Era una specie diì computer con una straordinaria velocità di elaborazione. Riusciva a ricordare nitidamente episodi, numeri, dati, fatti anche di 20 anni prima e a reperirli quando gli era necessario». Che rapporto aveva con il suo staff e i suoi soldati? «La sua mente super organizzata colpiva profondamente gli interlocutori, che tra l’altro, come tutte le grandi personalità, sapeva far sentire importanti e unici. facile immaginare come anche l’ultimo dei soldati dell’Armée con cui si intratteneva si sentisse amato ad personam, e fosse quindi ben disposto a battersi all’ultimo sangue per il suo capo. Era uno straordinario motivatore di uomini, di cui aveva una conoscenza assolutamente lucida e disincantata. Lavorava sulla loro testa. I soldati francesi non erano superuomini, ma poveracci come gli altri. Quello che li faceva giganteggiare rispetto a inglesi, austriaci, tedeschi o russi era che quelli erano dei disgraziati che andavano al macello perché ce li mandavano, mentre loro avevano fortissime motivazioni, erano caricati come molle». Quanto attingeva dal passato? «Come tutti i grandi uomini, Napoleone utilizzava la tradizione, ma poi le imprimeva quello scatto speciale che la faceva sembrare nuova. Mozart non lavorava diversamente. Ma Napoleone è stato il vero erede di Machiavelli, quello che ne ha messo in pratica le teorie. Vinceva perché si comportava freddamente, da manager che non ama e non odia nessuno, si poneva degli obiettivi e li perseguiva con strumenti adeguati. Era veramente avanti di 200 anni. Ed è avanti ancora oggi». In un certo senso è stato il fondatore della modernità... «Sì, e lo è stato sia nei piccoli che nei grandi sistemi. Applicava la sua straordinaria capacità organizzativa e gestionale a ogni cosa. Non era un ”proprietario”, uno che accumula e mette via. Era un costruttore, gli piaceva fare, era un genio dell’urbanistica, si comportava da grande ministro della cultura inventando il museo come luogo dove un popolo non solo educa se stesso, ma acquisisce una migliore concezione di sé. Era una persona che aveva un’ampiezza di progettazione e di idee veramente incredibile. Riformò tutti i campi dello Stato, dall’industria al commercio e alla borsa, dall’amministrazione all’istruzione: per lui gli insegnanti dovevano essere meglio motivati, preparati e remunerati. Era un modernizzatore a tutto campo. stata questa la sua vera grandezza». Fu anche un grande eroe borghese... «La borghesia l’ha venerato fino a oggi per un’altra grande innovazione: l’aver aperto le carriere a tutti, aver adottato la meritocrazia al posto del criterio ereditario dell’Ancien Régime, in base al quale governavano sempre gli stessi solo per un diritto di nascita. Così l’esercito cominciò a pullulare di figli del popolo, fornai, bottai, gente semplice per la quale, se capace, poteva spalancarsi una carriera interessante. E questo ebbe un effetto motivazionale incredibile». A cui si aggiunse il suo talento strategico... «Certo, ma soprattutto, ancora una volta, la sua capacità organizzativa: si preparava moltissimo, era uno che studiava, curava gli equipaggiamenti nei dettagli, diceva che in guerra si può lasciare al caso solo il 10 per cento. Ma non arrivava mai sul campo di battaglia già con un’idea precisa. Decideva sempre sul momento come agire in relazione alla situazione topologica e all’evoluzione del combattimento». C’è qualcosa in cui Napoleone può essere considerato datato? «Oggi il suo nepotismo, tipico del suo tempo, sarebbe impensabile e la sua opera accentratrice, dovuta alla mancanza di funzionari preparati, fu eccessiva. E poi era francamente inaccettabile il controllo ferreo che esercitava molto abilmente sulla stampa, togliendo l’aria a tutti i fogli liberi, ma lamentandosi platealmente quando qualcuno dei suoi collaboratori eccedeva in zelo censorio». Ecco, il Napoleone liberatore di popoli poi diventa un tiranno dispotico. Come la mettiamo? «In un certo senso è fatale che succeda. Si presentava come continuatore degli ideali rivoluzionari, ma poi dovette fare i conti con delle esigenze pratiche, con una realpolitik che questi ideali non consentiva di realizzare. Lui stesso spiegò di essere diventato un despota, un accentratore perché non aveva il tempo di formare una classe dirigente all’altezza delle sue necessità. Il vero nocciolo dello scontro è che Napoleone era un borghese che attaccava direttamente il sistema di potere, la mentalità e i metodi dell’Ancien Régime. Nei suoi vent’anni di potere si consumò una lotta serrata tra Ancien Régime e borghesia emergente, che poi finì paradossalmente per vestire i panni imperiali quasi come abiti di scena. Per lui era un’unica infinita battaglia, da Cairo Montenotte a Waterloo, errori compresi come la Spagna e la Russia, tutti momenti del medesimo scontro». Napoleone fu anche un inventore ante litteram di tecniche della comunicazione e del consenso di massa... «Capì l’importanza della costruzione della propria immagine, inventandosi un vero e proprio logo, una N cinta d’alloro che si vede un po’ dappertutto. E poi si pose il problema del consenso: sapeva di poter regnare solo conquistandolo, così fece di tutto per crearlo e gestirlo bene. Commissionò moltissimi quadri agli artisti di regime con scopi ben precisi: quando voleva sottolineare le sue virtù guerriere, si faceva ritrarre a cavallo, quando era il momento di far sapere al suo popolo che lavorava per lui giorno e notte, veniva raffigurato con lo sguardo appannato, la candela quasi finita e l’orologio che segnava le quattro. E poi inondò la Francia di busti, statue, stampe, piatti e tabacchiere con la sua immagine. Un vero e proprio merchandising di se stesso. Era un genio della comunicazione e tutti i despoti del Novecento lo studiarono a fondo, da Hitler a Mussolini». Anche il Memoriale di Sant’Elena rientra in questa logica? «Quello fu il suo vero capolavoro: lui, sconfitto sul campo, vinse la sua guerra con quel libro, inventandosi l’immagine seducente del grande sovrano liberale battuto dalle bieche e occhiute aristocrazie che avversavano il suo grande piano riformatore. Fu un’operazione editoriale studiata a tavolino che creò il primo grande best seller dell’età moderna, il libro su cui tutti i giovani europei sognarono un destino di grandezza. Fallita la gestione delle masse, che autorizzò umiliazioni e grandi crimini, oggi c’è un pericoloso ritorno alla personalità forte che risolva i problemi d’incanto. In fondo è sempre il momento di Napoleone, perché è sempre il momento della meritocrazia. Con quella ha vinto l’ultima battaglia». n